Un grande studioso dell’azione collettiva, Alberto Melucci, sosteneva che i movimenti “sono profetici”. Indicano direzioni in cui la società e le mentalità collettive si stanno evolvendo.
Uno dei terreni su cui i movimenti recenti hanno svolto questo ruolo è quello del rapporto con il potere. I movimenti degli ultimi due decenni, su questo piano, hanno anticipato il terreno politico generale su cui ci muoviamo oggi.
Vediamo quindi quali sono state le caratteristiche principali di questi movimenti, che accomunano movimenti contro le grandi opere, movimenti studenteschi, movimenti anti-austerità, movimenti per i beni comuni.
In primo luogo, sono importanti le condizioni a cui le mobilitazioni hanno acquisito caratteri di massa. Queste condizioni poggiano da un lato sulla presenza di un oggetto del conflitto che abbia una chiara leggibilità in termini di discriminante tra interessi contrapposti. I rischi, le minacce, la non corrispondenza agli interessi di un determinato gruppo sociale della politica contestata devono essere chiaramente percepibili, socializzabili e diffusi, capaci di costruire di per sé, potenzialmente, una frattura tra un Noi e degli avversari. Questi ultimi, a loro volta, devono essere materialmente e facilmente identificabili come un insieme determinato di istituzioni e di individui.
In secondo luogo, questo insieme di condizioni poggiano sui mutamenti politici intervenuti nei paesi occidentali negli ultimi decenni: lo spostamento della capacità decisionale da attori pubblici ad attori privati e da sedi elettive a sedi non elettive; le conseguenze della governance e il ruolo politico di autorità “terze”, non coinvolte nella politica partisan; la depoliticizzazione; la crisi del politico come dimensione autonoma.
Questo insieme di processi fa sì che, essendo presenti le altre condizioni citate, il conflitto sulla legittimità delle istituzioni a portare avanti politiche contrarie agli interessi di un determinato gruppo sociale non sia riconosciuta,. E la frattura populistica popolo/èlite assume un peso determinante nell’espansione della protesta.
Ciò che è messo in discussione è proprio la legittimità degli attori pubblici: la loro trasparenza, la loro coerenza con la vocazione universalistica delle istituzioni pubbliche, la loro indipendenza rispetto a degli interessi economici e corporativi, la correttezza formale e sostanziale delle procedure che conducono alle decisioni.
Gli attori della protesta accusano le istituzioni di essere illegittime, e attribuiscono a se stessi una legittimità sostitutiva e alternativa: per questo il soggetto dell’azione sono “i cittadini” in generale. I cittadini, la “gente comune”, operosa e rispettosa della legalità, è la costruzione discorsiva, l’autodescrizione che ha consentito ai movimenti di lanciare la propria accusa di illegittimità e assumere un carattere di massa.
Tra gli attivisti di queste proteste il sentimento politico più diffuso è spesso, come dimostrano molte ricerche, quello di un radicale, strenuo e incrollabile anti-partitismo, che fa parte di un più generale atteggiamento di ostilità verso le organizzazioni strutturate: sindacati, organizzazioni di rappresentanza, perfino associazioni.
La contemporanea chiusura dei processi politici alla mobilitazione collettiva, il restringimento dei confini del “monopolio della decisione politica”, la decrescita del ruolo delle assemblee elettive rispetto agli esecutivi, agli organismi economici e alle autorità “tecniche e neutrali”, non è unilaterale. Esso è accompagnata da una onnipervasiva retorica della partecipazione e dalla diffusione di strumenti di deliberazione top-down. Questa ambivalenza offre a chi protesta opportunità discorsive, la disponibilità di sfruttare un discorso pubblico contro i suoi stessi fautori, qualora questo discorso sia chiaramente smentito dai fatti.
All’interno delle proteste, organizzazioni di movimento, associazioni, centri sociali, organismi collettivi strutturati, vengono trattati alla stregua di partiti politici. Se ne diffida, in quanto organizzazioni orientate più alla propria valorizzazione che al “bene comune” del movimento. Il movimento è considerato un tutto, le organizzazioni che ne fanno parte sono, appunto, una parte. E la parte – la parzialità- è delegittimata in favore del tutto. Organizzazioni e “imprenditori della protesta”, per guadagnare legittimità, devono aderire a ciò che cittadini comuni, abitanti di un dato territorio, lavoratori di una determinata fabbrica, attori che fanno parte di un determinato gruppo sociale, considerano immediatamente comune, cioè comune indipendentemente da ogni forma di mediazione politica, organizzativa, culturale, ideologica.
Viene meno, per organizzare un collettivo politico e definire un’identità collettiva, la possibilità della separatezza tra chi organizza e chi è organizzato, tra chi mobilita e chi è mobilitato. Ciò non significa che il rapporto tra massa degli attivisti comuni e organizzazioni diventi ininfluente. Non si tratta di riscoprire il mito della spontaneità e disconoscere il ruolo delle organizzazioni. Nemmeno i movimenti dotati di una forte retorica anti-organizzativa nascono dal luogo vuoto dell’assenza di esperienze, tradizioni e organizzazioni. Ma attualmente, sono più i movimenti a costituire un’opportunità per le organizzazioni, che non questi ultimi a rappresentare un’opportunità cui ricondurre la conversione di un potenziale di mobilitazione in azione collettiva.
C’è poi la frattura fondamentale, il conflitto centrale su cui i movimenti degli ultimi anni hanno insistito: la frattura governanti/governati. Le due crisi contemporanee – quella economico-sociale e quella della politica – non assumono, o assumono in misura minoritaria, il volto del conflitto esplicito tra gruppi sociali. La contrapposizione lavoro/capitale è assente anche nelle retorica di formazioni nitidamente di sinistra e ispirate dall’azione dei movimenti come Podemo. È poco presente anche nella retorica dei movimenti Indignados e anti-austerity di questi anni, i cui avversari sono stati molto di più la Troika e la finanza che le imprese private.
In questo contesto, la dimensione elettorale riacquisisce un ruolo di primo piano. Il terreno elettorale svolge per i movimenti due funzioni essenziali. Fornisce aspettative simboliche di efficacia: se la piazza e la mobilitazione si rivelano inefficaci, si pensa che infastidire i dominanti sul piano elettorale possa esserlo molto di più. Secondo, quello elettorale diventa un terreno propizio per stabilizzare identità collettive e attori deboli ed eterogeni, che la sola mobilitazione sociale non è stata in questi anni in grado di sedimentare.
Attraverso questi strumenti, i movimenti degli ultimi anni e i partiti che vi si sono ispirati, immaginano una nuova trasformazione non solo dei rapporti tra movimenti e potere, ma più in generale di quelli tra politica e società.