Abbiamo visto la scena degli uomini e delle donne in fuga già molte volte in Europa. Non è una scena improvvisa, una novità del 2017. L’abbiamo vista per tutto il corso del Novecento. Ma non l’abbiamo memorizzata. L’abbiamo messa da una parte pensando che quelle persone scappavano da luoghi che erano “non Europa” e che c’era sempre un luogo in cui avevano trovato rifugio e conforto.
Ma non sempre è accaduto. Qualche volta è accaduto esattamente ciò che accade oggi: persone in fuga che arrivano a una frontiera, quella frontiera rimane chiusa e non hanno un luogo che li accolga. Il loro destino è di rimanere in una terra di nessuno. Più spesso di morire in quella terra di nessuno.
Proviamo a fare un fermo immagine su uno di quei luoghi.
Il 25 settembre 1940, Walter Benjamin, in fuga dai nazisti e nel tentativo di emigrare in America, giunge a Portbou, luogo di passaggio alla frontiera franco-spagnola. La Gestapo ha da tempo requisito la sua casa a Parigi e sequestrato la sua biblioteca. Con sé, in quella fuga disperata, ormai privato della nazionalità tedesca fin dal 1939, porta una borsa di cuoio nero che contiene il suo ultimo manoscritto, ancora più importante della morfina che gli sarebbe servita per fuggire via dalla vita, se i nazisti l’avessero raggiunto. Benjamin, pur essendo cardiopatico, accetta con un piccolo gruppo di persone nella sua stessa condizione di percorrere il sentiero attraverso le montagne, dove sarebbe stato possibile, anche in assenza del visto di uscita dalla Francia (che aveva promesso l’estradizione verso il Terzo Reich dei rifugiati provenienti dalla Germania), raggiungere la frontiera spagnola. Ma quel giorno la Spagna aveva chiuso il suo confine e il piccolo gruppo di profughi deve tornare indietro. Viene offerta una dilazione di un giorno e nella notte Benjamin, la notte del 25 settembre, scrive la sua ultima lettera: «In una situazione senza uscita, non ho altra scelta se non quella di farla finita». Poco dopo ingerisce la morfina che ha con sé e muore. È la sera del 26 settembre. Quella stessa notte arriva il consenso all’ingresso in Spagna. Gli altri passano.
La scena di Portbou chiama altre scene. Sono quelle degli “uomini in fuga” del nostro tempo.
A Portbou convergono molte scene che costituiscono la genealogia di quell’istante. Sono quelle specifiche della vita materiale e concreta di Walter Benjamin quale ce la consegnano le sue lettere del 1939-1940. Quelle della rievocazione e della ricostruzione di chi l’accompagna in quelle a lunga traversata sulle montagna. Quelle di chi condivide con lui la condizione di prigioniero, improvvisamente privato di ogni diritto e che non riesce più a comprendere dove si collochino la linea dell’amicizia, quella della lealtà, quella della dignità di sé.
Una condizione e una situazione che chiamano in causa molte cose tra cui due essenzialmente: la propria fragilità, lo spessore civile della società e del sistema politico che reclude. Nella nostra quotidianità ciò significa: il nostro sistema politico, il nostro linguaggio pubblico, le parole che usiamo, le paure che viviamo e l’incapacità di pensare una politica che vada oltre il respingimento.
Una politica che assuma la responsabilità di ciò che accade a quelle vite, dopo. Il silenzio con cui si accompagna l’assenza di politica non è meno complice del silenzio che circonda le loro vite. Un silenzio che qualcuno ha provato a raccontare, non ora ma già anni fa. Nel 2009 sono stati tre uomini di cinema – Andrea Segre, Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene – cui si deve Come un uomo sulla terra – a provare a raccontare altre “Portbou del nostro tempo. Un film che a lungo è rimasto al margine proprio perché quel film disturbava un “amico dell’Italia” – ovvero Muammar Gheddafi. Così nessuno ha avuto interesse allora, e nemmeno dopo per la verità, a raccogliere e a rilanciare quel tema. Semplicemente noi eravamo impegnati a fare affari con chi quel traffico in parte gestiva.
Si potrebbe osservare che questo è una costante della storia della cultura, un profilo che era ben presente a Benjamin quando raccoglieva le sue note appunto per dare forma a quel suo ultimo manoscritto e che figura come esergo sulla lastra che fa da barriera al Memoriale Benjamin a Portbou. «È più difficile onorare la memoria dei senza nome che non quella degli uomini famosi e celebrati, ivi compresi i poeti e i pensatori. Alla memoria dei senza nome è consacrata la costruzione storica».
Settant’anni dopo quella storia ancora brucia. Non per come allora andò, ma per l’allusione al nostro presente, per la carica di attualità che contiene.