Nel corso del Novecento italiano, i partiti di massa sono stati gli innegabili protagonisti della scena politica: sorti per dare voce e rappresentanza a specifiche esigenze di vario tipo – economiche e sociali su tutte –, hanno prodotto segmenti estremamente rilevanti della classe dirigente politica occidentale.
Questo quadro generale non deve però portare a delle letture semplicistiche della storia politica d’Italia o, peggio ancora, ad una sua banalizzazione. Dato che alla base dell’agire delle forze politiche organizzate vi era (e in certi contesti europei vi è ancora) un solido rapporto tra rappresentanti e rappresentati, all’origine delle scelte della politica nell’età contemporanea deve essere intravisto anche un altro aspetto: la capacità di recepire gli impulsi provenienti dal basso, a loro volta generati dalla volontà di essere parte di un determinato processo, al fine di influenzarne lo sviluppo.
Secondo quali modalità le iniziative partite dalla base della società sono poi riuscite a colmare determinati vuoti della sfera politica?
È possibile individuare un nesso tra gli stimoli venuti a galla in senso lato nella società e le successive scelte messe in campo dai partiti di massa nel corso del Novecento?
Per rispondere a queste due domande così da fare luce sull’impatto delle pulsioni extra-partitiche nelle agende programmatiche e politiche dei partiti di massa, sarà anzitutto utile tornare sull’atteggiamento della classe politica italiana in occasione dei fatti del luglio 1960. Di fronte al tentativo di svolta reazionaria innescato dall’allora Presidente del Consiglio, il democristiano Fernando Tambroni, e simboleggiato dalla decisione di concedere al Movimento Sociale Italiano di tenere a Genova (città medaglia d’oro della Resistenza) il suo sesto Congresso nazionale, una fortissima risposta popolare provocò un nuovo atteggiamento della politica.
Fernando Tambroni, 1960
A seguito delle manifestazioni anti-missine di Genova, Reggio Emilia e Roma, l’antifascismo ridivenne il perno simbolico di un sistema politico che escludeva tassativamente la destra neofascista. Si trattava di una presa di distanza significativa dalla rotta percorsa a partire dalla comparsa della Guerra fredda e nel corso degli anni Cinquanta: non si dimentichi che il governo di Adone Zoli (20 maggio 1957 – 2 luglio 1958) e il secondo esecutivo di Antonio Segni (16 febbraio 1959 – 26 marzo 1960), entrambi quindi esponenti democristiani, avevano ottenuto la fiducia parlamentare anche grazie al voto del MSI. A questo proposito, Guido Crainz ha scritto che il nuovo clima instauratosi nel Paese funse a sua volta da stimolo all’ascesa delle maggioranze di centro-sinistra nel giro di qualche anno, sia sul piano locale che su quello nazionale (Cfr. G. Crainz, La legittimazione della Resistenza dalla crisi del centrismo alla vigilia del ’68, “Problemi del Socialismo”, 7, gennaio-aprile 1986, pp. 62-97). Proprio l’antifascismo, la cui condivisione tra i cittadini italiani di vario orientamento politico (neofascisti esclusi, ca va sans dire), era stata dimostrata dalle manifestazioni popolari del luglio 1960, sarebbe divenuto uno dei collanti politici del centro-sinistra.
Altrettanto utile per cogliere la ricezione da parte della “grande politica” degli impulsi provenienti dal basso è l’iter che ha portato all’approvazione della legge 194 del 22 maggio 1978, ossia quel dispositivo che regola l’interruzione volontaria di gravidanza. All’origine della progettazione e dell’approvazione della “194” non può, infatti, non essere posta la crescente mobilitazione popolare finalizzata a far cadere i reati allora previsti dal codice penale (causare l’aborto in un donna non consenziente o consenziente; procurarsi l’aborto; istigare all’aborto).
Nel gennaio 1975, dopo l’arresto del segretario del Partito Radicale Gianfranco Spadaccia, della segretaria del Centro d’Informazione sulla Sterilizzazione e sull’Aborto (CISA) Adele Faccio e della militante radicale Emma Bonino per aver praticato aborti, nel Paese prese piede un variegato movimento d’opinione a favore della causa abortista che portò ad un cambio di direzione già nell’immediato, malgrado la palese contrarietà della DC.
Dopo la sentenza del 19 febbraio 1975 della Corte Costituzionale che dichiarava non reato la pratica dell’aborto in casi di necessità, avviando di fatto il processo di revisione della materia che si sarebbe concluso con l’approvazione della “194”, Ugo Intini scriveva ad esempio sulle pagine dell’“Avanti!”: «La sentenza della Corte Costituzionale costituisce una prima vittoria politica per quel movimento di opinione che, nato sotto la spinta di uomini e gruppi democratici avanzati, è rapidamente dilagato nel Paese, contribuendo, con la sua mobilitazione, a dare una spallata alla vecchia legislazione sull’aborto» (cfr. U. Intini, Una prima vittoria, “Avanti!”, 19 febbraio 1975).
Ugo Intini, Una prima vittoria, “Avanti!”, 19 febbraio 1975
Pur trattandosi di due soli casi tra i molteplici che affiorano dal fiume della storia d’Italia nel Novecento, dimostrano comunque un elemento troppo spesso sottovalutato dall’opinione pubblica: certi passaggi epocali non si sarebbero probabilmente verificati – o si sarebbero verificati con maggiore lentezza – senza le necessarie spinte popolari e, al contempo, senza la capacità delle forze politiche tradizionali di aggiornare le loro agende in conseguenza delle pulsioni nel frattempo emerse nei più disparati strati sociali.