Una finalità politica (finalité politique) non si concilia bene con la natura dell’integrazione europea. Questa non trova la sua sintesi in un obiettivo ultimo, ed è giusto che sia così. Per definizione, l’Europa che emerge dall’integrazione europea è un’istituzione volubile e ibrida, una soluzione temporanea. Non solo: come soluzione temporanea, l’Europa deve dimostrare di essere una versione desiderabile e convincente di quel gigantesco esperimento occidentale, post bellico, incorporando capitalismo e democrazia. Capitalismo e democrazia all’europea, se vogliamo. Uno degli elementi che rendono l’integrazione europea desiderabile è che è un processo che non assume mai una forma definitiva, né crede che questa sia una possibilità.
La mutevolezza, la complessità, e la trasformazione sono alcune dei principali punti di forza dell’Europa dell’integrazione europea, ma anche alcuni dei suoi principali punti deboli. In moltissime occasioni, quasi quotidianamente, questi tratti portano l’Europa a confrontarsi con nuove sfide circa la credibilità del progetto, in relazione alla sua unitarietà, alla sua solidarietà, alla sua resilienza. Si tratta di sfide dure da affrontare, che però offrono anche opportunità uniche; in pratica, l’opportunità di mostrarsi all’altezza delle rivendicazioni europee di diritti umani e del loro impatto universale. Opportunità che, come possono essere colte, possono anche essere perdute.
Nell’accogliere queste sfide, essere dogmatici, dismissivi, o in preda al terrore – sia relativo al cambiamento che alla continuità – è di ostacolo. Fare ricerca sulla sua stessa storia – di fatto la storia di un declino controllato – e l’azione politica e pragmatica basata su questa ricerca, sono gli unici partner su cui l’Europa può fare affidamento per trovare nuova ispirazione che stimoli l’immaginazione di un mondo migliore, e cercare di costruirlo in nuovi-vecchi modi europei, in quella che è la realtà politica oggi. Nel farlo, sia la libertà che l’azione sono cruciali.
Libertà
Ne “Le conference di Leuven” (1965), il filosofo ceco Jan Patočka afferma che la storia è determinata, da una parte, dalle contingenze, e, dall’altra, da quello che chiama “la logica del tempo spirituale che deve ancora venire”.
Secondo Patočka, così come la finitezza è ciò che caratterizza, in modo appropriato, il corpo, la storia stessa è caratterizzata da un movimento di decadenza, contro cui gli esseri umani sono chiamati ad opporsi. L’alternativa che si profila nella storia è la scelta tra la sottomissione alla vita corporea e biologica in quanto tale, ed il desiderio per una vita libera. Pertanto la storia è una storia del conflitto tra quanti restano confinati nel perimetro dei bisogni biologici e coloro che si impegnano nella lotta d’“opposizione al declino” (“opposition au déclin”), vale a dire la lotta contro la finitezza che caratterizza la condizione umana.
Senza dubbio, qualsiasi movimento storico si è configurato come movimento che cerca distacco dalla decadenza, o “redressmement”, come scrive Patočka. Eppure, ogni nuovo stadio che viene raggiunto nella lotta per la libertà, nasconde al suo interno i semi che minacciano una nuova, possibile, decadenza. Questo risulta nell’impossibilità di una fine della storia, della cessazione del movimento.
Ogni traguardo raggiunto nella lotta verso la libertà reca al suo interno i germi di una possibile, futura decadenza.
Se è ancora possibile parlare di un telos, dovrà essere concepito come la possibilità di dare un senso al mondo, come sforzo continuativo che mira a dare direzione all’agire umano e al movimento della storia – in breve, dovrà essere concepito come una lotta. Questa lotta deve essere intesa come la creazione di sfere di libertà e di responsabilità sempre più larghe. Vivere l’uno per l’altro viene pertanto rivelato come il senso, o anche solo come la direzione di tutto l’agire umano e del cammino della storia come tale. In altre parole, il significato deve essere cercato nella realtà degli affari umani (la “verità effettuale della cosa”, nelle parole di Machiavelli), vale a dire: nella politica.
La libertà viene ottenuta sullo sfondo della violenza che caratterizza le nostre relazioni private con gli altri, è, in altre parole, una contromossa contro la violenza di altri e contro una vita naturale che determina un arrendersi alle necessità della vita e a un desiderio inesauribile. La libertà così intesa è solamente una libertà negativa, un movimento che si esplica in lacerazioni. In base a questa concezione di libertà, secondo Patočka la storia si rivela, in via finale, come un alzarsi sopra la decadenza. E, dato che la nostra situazione storica è una situazione agonistica, questo risultato richiede sforzo, pretende l’eccellenza; e richiede che noi comprendiamo il nostro tempo, come già osservato da Machiavelli. L’essenza dell’esistenza risiede nella comprensione, non nella conoscenza. Ma la comprensione è sempre anche una realizzazione, un risultato. Comprendere il nostro tempo non è nient’altro che l’inizio dell’azione.
Azione
Dato che la polis, lo spazio dedicato alla comunità nella Grecia antica, è il terreno della storia, e dato che la creazione di spazio politico sia la vera eredità della polis, la comprensione e la capacità di alzarsi sopra la decadenza possono essere raggiunti solo all’interno dello spazio politico. In altre parole, l’istituzione di uno spazio politico è, per Patočka, la creazione di quello che in ciascuna era viene riaffermato come il compito fondamentale dell’umanità, che coincide con quello che il fenomenologo francese Maurice Merleau-Ponty chiama, nella Fenomenologia della Percezione, l’atto di recupero (acte de reprise) e più tardi “istituzione”. L’atto di recupero è semplicemente trasformare la contingenza in significato.
La polis greca, modello storico di democrazia per il mondo occidentale, ha al centro la concezione di uno spazio politico condiviso.
Tanto per Patočka quanto per Merleau-Ponty, sta tutto nel pensare all’azione politica e alla prassi umana nei confini del movimento della storia. Sicuramente, quando delineavano le loro filosofie della storia, Patočka e Merleau-Ponty stavano forse pensando più a una fenomenologia della storicità delle cose del mondo e delle preoccupazioni dell’uomo, piuttosto che una vera e propria – seppure eretica – filosofia della storia, una fenomenologia che avrebbe dovuto trovare e tracciare le intersezioni tra movimento dell’uomo, movimento della storia e movimento del mondo. Patočka si riferisce, infatti, ad una concezione della storia come storia del mondo, non di ciò che è contenuto nel mondo ma come “storia della comprensione che rende umani gli esseri umani” e suggerisce che questa concezione dovrebbe includere la comprensione sia del cambiamento che della permanenza.
Il ritmo della storia
Con riferimento alla crisi dell’Europa, in conclusione alla sesta – e ultima – Conferenza di Leuven, Patočka indica anche una nuova, possibile, lettura: osserva che il mondo, o almeno il mondo dell’Europa contemporanea, è in un momento di fermo. Patočka si chiede se questo fermo dovrebbe essere inteso come un invito alla riflessione.
Il movimento della storia umana è una lotta contro la decadenza. La decadenza è come un’onda che si solleva, e come raggiunge il suo apice, ripiega e si infrange. Da questo punto di vista, uno può vedere i momenti di caduta come una crisi o persino una catastrofe, o può cogliere, nei momenti di crescita, l’occasione per una rinascita. Patočka si riferisce a questo come il ritmo di sistole e diastole in cui consiste il movimento della storia. Stando a questa interpretazione, la storia sarebbe un movimento senza tempo, o un continuo compiersi di cadute, schianti e ricostruzioni. Il movimento della storia non può, di per sé, trovare riposo, a parte nella ricostruzione razionale fatta successivamente. Nonostante questo, dovremmo comunque immaginare che possiamo, alle volte, cavalcare l’onda prima che ripieghi su sé stessa, sfruttando momenti favorevoli o esempi distinti di eccellenza e ardire, come nel Principe di Machiavelli. Tra i ritmi di sistole e diastole che caratterizzano la storia, questa viene considerata da Patočka come una “felice diastola”.
Pertanto, anche se accettiamo la crisi dell’Europa come definitiva, e seppure in mezzo a problematicità, si dischiude lo spazio per la comprensione. La crisi stessa non può significare la fine della cultura, e neppure la fine della storia stessa, così come la crisi dell’Europa non implica la fine politica dell’Europa, o la scomparsa dello spazio politico europeo.
Pertanto, dovremo riflettere sui mezzi e gli obiettivi, forniti dalla crisi, per superarla una volta che si sia compresa. Tutto dipende dalla possibilità di giungere ad una sintesi nel mezzo di un conflitto, come afferma Patočka: “Occorre comprendere che qua è dove il vero dramma si sta svolgendo; la libertà non comincia solo “dopo”, dopo che la lotta si è conclusa, ma ha piuttosto il suo spazio precisamente al suo interno – questo è il punto più saliente”.
Non c’è storia senza conflitto, dacché il conflitto è il posto della storia. E la storia d’Europa – o persino la storia in quanto tale – è la storia del conflitto contro la decadenza, una lotta che deve ancora compirsi. La crisi sociale ed ambientale, o anche la cosiddetta crisi dei rifugiati che sta invischiando l’Europa a livello transnazionale dovrebbe forse essere inscritta in questo ritmo della storia, dove la “diastola felice” consisterebbe, sicuramente, in abbandonare il mito di una “finalità politica”. L’integrazione europea, una volta compresa sia come mezzi che fini per superare la crisi, dovrà adesso limitarsi a fare i conti con la realtà di sfide presenti e future attraverso azione collettiva, giacché solamente nella “verità effettuale della cosa”, l’Europa può trovare opportunità pratiche di mostrarsi all’altezza delle rivendicazioni europee dei diritti umani.