Mai come in questo periodo si è parlato di bambini: di quanto contino i bambini di fronte all’emergenza sanitaria, di quanto valgano i loro diritti. Si parla di bambini come di una categoria dimenticata, come se le istituzioni non avessero presenti i loro bisogni o, peggio ancora, come se i governanti preferissero accantonarli in ragione di interessi presuntivamente superiori, quali sono in primis le esigenze di salute pubblica, ma anche quelle dell’economia e della produttività. Si pone il dubbio, allora, che tutto ciò che tocca il mondo dei bambini sia ritenuto, in qualche misura, secondario e, dunque, non essenziale: perfino la scuola. È davvero così?
Il primo dei decreti d’urgenza adottati dal Governo, d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, contempla, fra le misure anti-Covid esperibili dai Comuni e dalle aree interessate, la sospensione dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni ordine e grado, facendo salve le attività formative a distanza. La sospensione dell’attività educativa e didattica in presenza è stata, poi, estesa all’intero territorio nazionale, mentre incalzavano, a livello regionale, misure volte a restringere la libertà di circolazione delle persone e, conseguentemente, il diritto dei bambini, e dei ragazzi, di giocare, di muoversi, di fare sport e di socializzare.
Tutte queste limitazioni hanno inciso significativamente sulla vita di relazione dei bambini e sul loro percorso di crescita: lo dicono gli studiosi più attenti delle scienze dell’età evolutiva, lo confermano i rapporti di centri di ricerca ed associazioni impegnate in prima linea nella difesa dei diritti dei minori d’età. Un dramma, questo, che colpisce ancor di più chi versa in una condizione di fragilità, perché affetto da una qualche forma di disabilità e perché afflitto da una condizione di disagio socio-economico, linguistico e culturale, con ciò confermando che la pandemia ha amplificato diseguaglianze già esistenti.
Sembrerebbe, dunque, che la politica abbia fallito. Abbia fallito nella sua opera di mediazione degli interessi in gioco, colpendo, di fatto, i più deboli.
Di fronte a questo grido d’allarme le istituzioni non potevano rimanere indifferenti, tant’è che, mentre la curva dei contagi continua a salire, la scuola in presenza tende ad essere salvaguardata secondo quella che si ritiene essere la massima misura possibile, anche se, con il d.p.c.m. 3 novembre 2020, per tutto il ciclo secondario d’istruzione e, nelle “zone rosse”, per la seconda e terza classe della scuola secondaria di primo grado, la didattica avviene in modalità “a distanza”; permane, poi, nel vigore del regime di sospensione che colpisce le attività di palestre, piscine e, per le zone a massimo rischio, dei centri sportivi anche all’aperto, una libertà, sia pur limitata, negli spostamenti e la possibilità di svolgere attività motoria negli spazi esterni e in forma individuale.
Parrebbe, dunque, esservi, per ora, il tentativo di intervenire in misura graduale, tenendo conto, per ciò che concerne la scuola, delle peculiarità delle diverse fasce d’età, oltre che dei bisogni specifici degli alunni più fragili, per i quali, in caso di incompatibilità con la DAD, è prevista la possibilità di frequentare la scuola in presenza, venendo incontro, altresì, alle esigenze d’inclusione. Più in generale, compatibilmente con la situazione in atto, si riscontra il proposito di evitare misure drastiche, che impongano il lockdown totale e di non uscire dal proprio domicilio. Non mancano, tuttavia, dubbi intorno alla scelta di sospendere l’attività didattica in presenza per i più grandi, i quali, ritenuti in grado di seguire le lezioni online, si trovano di fatto privati della possibilità di vivere la scuola nel quotidiano, interagendo con i docenti e con i coetanei, in un quadro generale in cui la vita di relazione è comunque compromessa dalle restrizioni imposte a qualunque forma di aggregazione.
Questa la situazione che viviamo oggi, secondo le scelte fatte dalla politica. Ma qual è il punto di vista del diritto? Quali le riflessioni che possono essere fatte, in particolare, alla luce del quadro costituzionale? Queste domande impongono preliminarmente di interrogarci su quale sia la posizione dei bambini, e dei ragazzi, all’interno dell’ordinamento e se, e fino a che punto, la situazione della pandemia possa incidere su di loro.
Protagonista è la persona con minore età, definizione risalente alla Convenzione internazionale dei diritti del fanciullo, e riconosciuta implicitamente nella Costituzione italiana, che pone in evidenza la doppia anima di questa figura: il suo essere persona (soggetto di diritto al pari dell’adulto) in divenire (perché, appunto, minore d’età). Il fanciullo è sì titolare di diritti, ma, per il loro esercizio, può avere bisogno della mediazione e dell’accompagnamento dell’adulto.
Una condizione, questa, che descrive la dicotomia intrinseca dell’essere minore d’età: quella fra autonomia e protezione; una visione che appartiene tanto al mondo giuridico quanto al mondo della psicologia e spiega, in qualche misura, lo stato di “debolezza” in cui versa il soggetto ed il regime di speciale protezione che l’ordinamento ha scelto di riservargli.
Ma quanto può valere la posizione del minore innanzi all’emergenza che stiamo attraversando? In cosa consiste, e dove finisce, quel particolare regime di protezione che l’ordinamento sceglie di destinargli, quando è in gioco la salute pubblica? Molti gridano ad un vero e proprio attentato ai più deboli e, attraverso manifestazioni e slogan, rivendicano i diritti di questa categoria per troppo tempo ignorata dalle istituzioni.
La situazione di emergenza sanitaria, come tutte le situazioni di carattere emergenziale, comporta una sospensione dei diritti costituzionali o comunque una limitazione, un restringimento degli spazi di libertà: cosa avvenuta, nel caso di specie, tanto per gli adulti, quanto per i bambini. Ci si chiede, allora, quali sono i diritti che non debbono rimanere sospesi: se vi sono dei diritti che non sono sacrificabili nemmeno in ragione del fenomeno pandemico.
Fra queste, figurano senz’altro situazioni rispetto alle quali le esigenze di tutela si fanno più forti, perché connesse, magari, ai doveri inderogabili gravanti sulla famiglia e sulle istituzioni. È il caso, certamente, dei diritti connessi ai rapporti interfamiliari, come pure del diritto all’istruzione.
Così, in quella che è stata la fase acuta dell’emergenza sanitaria, il Governo ha chiarito che gli spostamenti per raggiungere i figli presso l’altro genitore, o per condurli verso di sé, sarebbero stati comunque consentiti, secondo le modalità indicate dal giudice nei provvedimenti di separazione e di divorzio. In caso diverso, il diritto alla bigenitorialità di cui all’art. 30 Cost. sarebbe rimasto compromesso, con grave pregiudizio dei bisogni di accudimento e del percorso di sviluppo psico-fisico del figlio.
A fronte di orientamenti pienamente adesivi della giurisprudenza, si è registrato, tuttavia, un indirizzo diverso, per cui il diritto in esame deve retrocedere rispetto alla salute pubblica, potendo essere garantito comunque attraverso videochiamate, colloqui via Skype ecc. Sorge il dubbio, però, che siffatta modalità sia in grado di venire incontro all’esigenza di salvaguardare la relazione affettiva nella sua effettività, posto che la comunicazione virtuale, necessariamente transitoria, e comunque non accompagnata dalla dimensione del contatto e della corporeità, non può certamente prendere il posto del rapporto vivo con il genitore, soprattutto nel caso dei più piccoli.
Del pari, il diritto all’istruzione, componente indefettibile del percorso educativo e di crescita del fanciullo, non può rimanere sospeso, ma, se mai, può essere assicurato secondo una modalità diversa: così, nell’immediato, la scelta, è ricaduta sulla DAD, scelta che, tuttavia, prolungata oltre i tempi ragionevolmente imposti dal rischio sanitario, e in assenza di misure atte a contenere le degenerazioni derivanti dal suo utilizzo, ha finito con l’amplificare diseguaglianze già presenti, se non addirittura, con il crearne di nuove.
Se, dunque, tali diritti non possono rimanere sospesi, s’impone comunque l’attivazione di soluzioni proporzionate rispetto agli obiettivi, capaci di venire incontro alle esigenze di contenimento del contagio, tenendo conto dell’impatto sui loro destinatari ed arginando, nella massima misura possibile, il pericolo di conseguenze pregiudizievoli. Un’ottica di ragionevole bilanciamento, dunque, che non dev’essere mai abbandonata, nemmeno in circostanze emergenziali.
Tale è l’orientamento da seguire nella situazione attuale, nella consapevolezza che, se non è ammessa una gerarchia fra i diritti costituzionali, e, dunque, l’esistenza di quelli che la Corte costituzionale definisce “diritti tiranni”, il livello, e il modo, di godimento di un diritto (pur) fondamentale deve essere commisurato al tasso di diffusione del contagio, potendo questo compromettere, in via preliminare, la fruizione del diritto stesso, essendo la salute un prius ineliminabile. Anche quando entrino in gioco i bambini.
Lo ha confermato più volte la giurisprudenza costituzionale, là dove osserva che il principio del superiore interesse del minore, – i best interests of the child, secondo la Convenzione ONU dei diritti del fanciullo – , non si pone in posizione sovraordinata rispetto agli altri beni/interessi costituzionali e, dunque, non può sottrarsi all’opera di bilanciamento con questi stessi beni/interessi. Ciò che, se mai, si può pretendere, in nome di quel speciale bisogno di protezione riservato ai minori d’età, è il rispetto rigoroso del canone di proporzionalità/ragionevolezza, sì che il sacrificio imposto a tali posizioni sia, in qualche misura, contenuto o, quantomeno, compensato sul piano del godimento con l’ideazione di modalità alternative, ma non mortificanti dell’essere bambino, o ragazzo, giacché altrimenti ogni soluzione, per quanto doverosa, finirebbe col risolversi in un’irrimediabile lesione dei loro diritti.