Nell’immagine, una foto di Bob Dylan nel 1963
Non era mai uscito dal Minnesota, Robert Allen Zimmerman – alias Elston Gunn, poi Robert Allyn e infine, e per sempre, dopo avere letto Dylan Thomas, Bob Dylan – quando decise che sarebbe diventato “il più grande discepolo di Woody Guthrie”. Così racconta lui stesso nell’autobiografico Chronicles. Volume 1: aveva, di suo, una passione per la musica folk e un amico gli aveva fatto ascoltare la propria collezione di dischi del grande folk singer ed era stata “un’epifania”. Subito dopo lasciò il Midwest per New York e per andare a conoscere il suo idolo, ricoverato in un ospedale del New Jersey con il morbo di Huntington. Era il 1961, aveva quasi vent’anni.
New York voleva dire Woody, ma non solo: era il luogo dove tutto sembrava possibile. Visitava il malato e gli ricantava le sue canzoni, le stesse che, insieme con altre, tradizionali, aveva cominciato a cantare nei tanti locali del Greenwich Village. Il suo mondo era ancora “la tradizione con la T maiuscola”, ma il contatto con i protagonisti maggiori e minori del folk revival newyorkese – da Dave Van Ronk e Pete Seeger a tanti altri – lo spingeva a cercare la propria voce. Imparava in fretta. Anzi, “facevo tutto in fretta”, ha scritto.
Bruciò le tappe. Quando infine Woody Guthrie morì, nell’ottobre 1967, Bob Dylan era ormai pienamente se stesso. Aveva fatto i primi tour oltreatlantico; aveva cantato al Newport Folk Festival e, in piazza, contro la guerra; aveva pubblicato i suoi primi otto LP e alcune sue canzoni avevano fatto il giro del mondo. Tra queste: Blowin’ in the Wind, A Hard Rain’s a-Gonna Fall, Mr. Tambourine Man, It’s All Over Now, Baby Blue, Masters of War e Like a Rolling Stone, che nel 1965 aveva segnato l’inizio della transizione verso il rock.
Un graffito a Manchester che raffigura Bob Dylan
La sua ricerca lo aveva allontanato dal folk tradizionale, e infatti nel ‘65, quando si presentò a Newport con la chitarra elettrica, fu contestato dai “puristi” tra il pubblico e da una parte dei critici. Tuttavia, a distanza di anni, si può dire che dei tanti abiti autoriali con cui nei cinquant’anni successivi si è poi presentato sui palchi di tutto il mondo (e in quasi venti milioni di dischi venduti) quello cucitosi addosso in quegli anni fu forse il più innovativo (e per molti il più significativo). Di certo fu l’insieme di musiche e parole in cui il maggior numero di suoi (più o meno) coetanei trovarono rispondenze memorabili.
Nel 2004, nella narrazione assai selettiva delle Chronicles, Bob Dylan rifiutava ripetutamente l’immagine di sé come interprete e portavoce della propria generazione: “Io non appartenevo a nessuno, né allora, né adesso. […] Io non avevo fatto altro che cantare canzoni che parlavano chiaro e che esprimevano la forza di realtà nuove. Avevo poco in comune, e ne sapevo ancora meno, di una generazione della quale avrei dovuto essere la voce”. Non è vero, ma anche ammettendo che questo fosse vero soggettivamente, non c’è dubbio che sia stata la sua generazione – o almeno parte di essa – a riconoscerlo come propria voce.
Nel libro riconosce i tanti debiti accumulati in quei primi anni, ma sottolinea sempre la singolarità della propria ricerca. E nell’unico vero salto in avanti temporale che in esso si concede, descrive con dovizia di dettagli l’acribia professionale sua e dei suoi collaboratori nella produzione di quello che sarebbe diventato Oh Mercy, l’LP uscito alla fine dell’89. Tuttavia, quando gli attribuirono il Premio Pulitzer, nel 2008, e poi il Premio Nobel, nel 2016, quello che gli venne riconosciuto nelle motivazioni fu, rispettivamente, l’“impatto profondo sulla musica popolare e la cultura statunitense, attraverso composizioni liriche dallo straordinario potere poetico” e le sue “nuove espressioni poetiche nel contesto della grande tradizione della canzone statunitense”. Non era più una generazione che si riconosceva in lui, lui nolente. Quella che veniva riconosciuta – senza entrare qui nel merito delle discussioni che entrambi i premi suscitarono – era, da una parte, l’importanza culturale del suo lungo percorso artistico e, dall’altra, la validità della sua precisa rivendicazione di essere un “poeta musicista”; di essere, come gli aveva detto e predetto Archibald MacLeish nel 1968, un “poeta serio”, il cui lavoro sarebbe stato “una pietra miliare per le generazioni a venire”.