Università di Pavia

Fin dall’inizio, per cogliere l’eccezionalità dell’emergenza causata dalla pandemia ci siamo serviti di varie metafore: la pandemia è stata raffigurata come una catastrofe naturale, un’invasione, una lotta; il virus è un avversario sportivo verso il quale bisogna tenere alta la guardia, un mostro o, nelle parole pronunciate da Xi Jinpin in un drammatico discorso del 23 gennaio, un diavolo malvagio (mogwai). Nessuna metafora però è piú pervasiva di quella della guerra: come hanno dimostrato PhilippWicke e Marianna Bolognesi in uno studio condotto su Twitter fra marzo e aprile, la metafora della guerra supera di cinque volte tutte quelle alternative (PLOS settembre 2020 https://arxiv.org/ftp/arxiv/papers/2004/2004.06986.pdf). 

Attraverso questa metafora, il virus diventa il nemico, medici e infermieri sono i nostri combattenti in prima linea e le terapie intensive diventano trincee. Contro questo nemico non abbiamo armi, e intanto continua la conta dei caduti. Niente di strano nell’uso di metafore: come ben aveva capito Aristotele, la metafora mette davanti agli occhi dell’interlocutore ciò che stiamo cercando di spiegargli e lo rende di immediata comprensione (Umberto Eco, Aspetti conoscitivi della metafora in Aristotele, 2004). Ma in realtà la metafora della guerra riferita alla pandemia è qualcosa di piú di una semplice espressione metaforica: è quella che Lakoff e Johson in Metafora e vita quotidiana (Bompiani 2005) definiscono una metafora concettuale. 

Si tratta in pratica non solo di comprendere una certa situazione nei termini di un’altra, ma anche di regolare i nostri comportamenti di conseguenza. Un intero dominio concettuale di partenza, in questo caso quello della guerra, viene proiettato su un altro dominio target, la pandemia, e questo non ci fornisce solo una serie di espressioni linguistiche, ma ci porta ad agire come se ci trovassimo nella situazione che ci viene cosí raffigurata. Una metafora concettuale chiama in gioco una serie di corrispondenze sistematiche fra elementi dei due domini concettuali. La metafora quindi è riassumibile nella formula “A è B”, nel nostro caso “la pandemia da Covid-19 è una guerra”. In questo modo, la metafora agisce su tre livelli: quello linguistico, quello cognitivo e quello comunicativo. 

L’uso della parola “guerra” evoca un’intera cornice, o frame, e ci induce ad entrare in questa cornice e comportarci come nella realtà evocata. In Metaphor and Thought (Berkeley 1993) George Lakoff spiega appunto che non solo ci serviamo della metafora per comprendere un dominio concettuale meno noto mediante uno più noto, ma soprattutto che la metafora determina poi il nostro comportamento. Questo significa, nel caso esaminato, entrare in una logica emergenziale, nella quale tutto diventa accettabile in nome della difesa della nazione davanti al nemico. 

È necessario osservare che la metafora secondo la quale curare una malattia equivale a combattere una guerra non è nuova, e infatti è registrata in MetaNet, un archivio di metafore e frame di uso corrente creato all’università della California a Berkeley. Tuttavia, si tratta per lo più di una metafora legata al corpo umano (il campo di battaglia) o all’impiego di farmaci quali armi. L’attuale retorica della guerra ha invece una portata molto piú ampia, con effetti pratici di scala mondiale, quali quelli descritti nella voce “Economia di guerra” di questo Sillabario, in cui si ricorda tra l’altro la chiamata alla mobilitazione di Emanuel Macron. 

Nel discorso di marzo pronunciato davanti alla bandiera, il presidente francese ha ripetuto la parola “guerra” sei volte, chiedendo ai suoi connazionali di accettare le restrizioni, che allora sembravano una misura temporanea, come contributo di ciascun singolo individuo alla salvezza nazionale. In quell’occasione, i media tedeschi non hanno mancato di rimarcare le differenze fra il discorso di Macron e quello di poco successivo di Angela Merkel, che rifutando apparentemente la retorica della guerra chiedeva ai cittadini tedeschi di “prenderla sul serio”: un richiamo alla responsabilità, in linea con la personalità pacata della leader tedesca. In realtà però a leggere bene il suo discorso anche Merkel non rinuncia ad evocare lo stesso frame, pur non usando i toni roboanti propri a Macron, quando dice che la Germania si trova nella piú grande emergenza dalla Seconda Guerra Mondiale. Inutile ricordare come la Germania sia uscita dal conflitto per capire quanto possa essere potente questo paragone per i Tedeschi. 

D’altro canto è stato lo stesso segretario dell’ONU Antonio Gutiérrez che al summit virtuale del G-20 ha affermato “siamo in guerra col virus … questa guerra necessita di un piano da tempi di guerra” e perfino un negazionista come Donal Trump in un video del 23 marzo ha definito se stesso come un “War-time President” nella guerra conto il “virus cinese”. Il neoeletto Joe Biden, che fin dalla campagna elettorale aveva promesso di occuparsi seriamente della pandemia, ha dato all’inizio del suo mandato una dimostrazione pratica di come la metafora della guerra si traduca in comportamenti adeguati, promettendo di fare ricorso al War Production Act, una serie di misure che datano dall’epoca della Guerra di Corea e che danno al governo il potere di richiedere alle aziende la produzione di prodotti strategici nonché di requisirli se necessario. Le possibili conseguenze di un tale comportamento bellico hanno, è bene sottolineare, portata planetaria.

Il riferimento a un evento tanto tragico come la Seconda Guerra Mondiale, inoltre, lega la guerra a un altro frame, evocato anche dalla chiamata alla mobilitazione di Macron. Si tratta del frame della nazione, potentemente evocato anche in Italia (ricordiamo gli inni nazionali cantati sui balconi in primavera), un frame molto diverso da quello di Stato che rimanderebbe a un insieme strutturato di istituzioni. Com’è noto, i membri di una nazione non sono cittadini che condividono un contesto istituzionale, ma individui che si riconoscono in determinati valori identitari. 

L’evocazione dello ‘spirito’ nazionale e la mobilitazione collettiva per la difesa della nazione rendono piú facile per i cittadini entrare nel frame della guerra, e conseguentemente accettare misure e pratiche dai propri governi che non sarebbero altrimenti accettabili senza previe discussioni e valutazioni, perché in guerra bisogna reagire prontamente piuttosto che discutere. Inoltre, in guerra la catena decisionale deve necessariamente essere ben precisa e verticistica, quindi va bene si governi per decreti, o, come è successo in Italia, per decreti del Presidente del Consiglio, che in questo caso vede di fatto accresciuto il proprio potere. A questo proposito molti commentatori hanno segnalato la pericolosità del frame della guerra: non si dimenticherà che la stessa Unione Europea ha osservato con preoccupazione le mosse del primo ministro ungherese Viktor Orbán, che in primavera si è per alcune settimane arrogato poteri speciali. 

Molte operazioni in guerra sono puramente tattiche: questa consapevolezza rende piú accettabile il fatto che le misure vengano annunciate di sera e che subiscano modifiche con poco preavviso. Sfugge però la dimensione strategica e si finisce per cadere in un altro dominio metaforico proprio della politica, quello della navigazione: si finisce purtroppo per navigare a vista, metafora che evoca uno scenario non certo rassicurante in un momento di crisi non solo sanitaria ma ormai soprattutto socio-economica. 

Le implicazioni di un frame metaforico sono tante e sottili. Pensiamo alla metafora della catastrofe naturale: in febbraio-marzo, il ritardo nell’affrontare la situazione nel bergamasco ha causato un numero esorbitante di decessi. Si è discusso sulle responsabilità della mancata istituzione di una zona rossa a Nembro e Alzano Lombardo, col solito rimpallo fra Governo e Regione. Alle accuse, l’allora assessore lombardo al Welfare, Giulio Gallera risponde in un’intervista alla Stampa che la Lombardia “è stata travolta da uno tsunami”. Lungi dall’essere una manifestazione di creatività momentanea, il paragone con lo tsunami appare ben consolidato nelle retorica della giunta lombarda e ricorre anche nella scheda introduttiva al Piano Lombardia di investimenti straordinari, dove è la pandemia descritta, al pari appunto di uno tsunami, come una circostanza “assolutamente eccezionale non prevista né prevedibile”. 

Il richiamo alla catastrofe naturale ne attiva il frame, che è quello di un evento non controllabile dagli esseri umani. La conseguenza è molto concreta: non ci sono responsabili per un evento di questo tipo. La non assunzione di responsabilità è ribadita dal riferimento all’imprevedibilità dell’avvenuto. Questo significa che non solo non ha senso cercare responsabili per la mancata istituzione della zona rossa, ma anche per la mancanza di strutture sanitarie (letti in terapia intensiva, medicina territoriale) che si sono rivelati tragicamente sottodimensionati se non assenti nella Regione. 

Ma la pandemia non è uno tsunami né tanto meno una guerra e per prendere misure concrete e davvero adatte alla situazione pandemica sarebbe bene uscire da queste metafore. Sarebbe bene accettare che esistono reponsabilità, per esempio, perché aiuterebbe a non ripetere gli stessi errori in futuro esercitando maggiore previdenza. Anche perché come sappiamo la pandemia era prevedibile, tant’è che da anni ai governi era stato chiesto dall’OMS di elaborare un piano pandemico. Abbandonare la retorica della guerra, oltre a facilitare l’assunzione di responsabilità, significherebbe anche evitare il rischio di agire in maniera affrettata, sottraendosi al pur necessario dibattito che, comporterebbe reazioni meno concitate e forse piú lente, ma sicuramente meglio ponderate e molto probabilmente piú efficaci. 

È vero che evocato un frame è quasi impossibile uscirne, come nota George Lakoff mettendo in guardia dai rischi che comporta per un politico accettare di servirsi della metafore dell’avversario (Non pensare all’elefante, Chiarelettere 2014). Già all’epoca della Prima Guerra del Golfo, Lakoff osservava che le metafore possono uccidere. Un reframing, per quanto difficile, appare dunque necessario e urgente: uscire dal frame della guerra per rientrare nel dominio cognitivo di un’emergenza che, per quanto emergenza sia, è un’emergenza sanitaria e non bellica implicherebbe magari l’uso di toni meno esaltanti nei confronti degli eroi caduti in prima linea, ma consentirebbe di ripensare all’organizzazione del nostro sistema sanitario nazionale, da anni decurtato in nome di politiche liberiste. È infatti inutile piangere sugli eroici medici morti per Covid se questi decessi sono stati causati dalla mancanza di adeguati presidi sanitari, o dall’impossibilità di isolare i pazienti contagiati per carenza di letti o reparti. Il rischio è altrimenti che da questa metafora si finisca per non voler uscire, appunto per non dover affrontare la realtà per quello che è veramente, senza poter usare a volte comode scorciatoie.

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