Per definire un calendario civile che sia davvero europeo, una fonte di ispirazione potrebbe arrivarci dal modo in cui gli statunitensi hanno percepito e continuano a percepire l’Europa e il suo patrimonio artistico e culturale
Da quando gli Stati Uniti sono una potenza economica, militare e politica mondiale, quali che siano i Presidenti e i partiti di cui sono espressione, quali che siano le maggioranze in seno al Congresso, l’atteggiamento nei confronti dell’Europa è quello della grande potenza. Nessuna presunzione immotivata in ciò; piuttosto la realistica consapevolezza delle proprie superiorità, da cui discendono gli atteggiamenti diversi a seconda delle occasioni, delle situazioni, degli interessi (momentanei e strategici), dei contesti politici generali, degli interlocutori. Dopo le due guerre mondiali che l’Europa ha partorito, i rapporti si sono differenziati: con i diversi Paesi singolarmente e con tutti essi nel contesto delle alleanze politico-militari che l’Europa stessa ha espresso.
Ma in almeno un secolo e mezzo di rapporti sbilanciati, la cultura alta statunitense ha anche prodotto per sé, per suo uso e consumo, una sua immagine complessiva dell’Europa. Guidata da motivazioni opportunistiche e acquisitive, l’Europa vista come miniera di “cose” preziose da estrarre e portare a casa, per elevare le classi dominanti degli Stati Uniti sull’unico terreno su cui esse stesse verificavano le loro mancanze. Allora gli americani arrivavano, compravano, portavano via opere d’arte come “addetti ai traslochi” (come ha detto Aline Saarinen di JP Morgan). Viaggiavano da una città d’arte all’altra – viaggiare in Europa costava poco – e le grandi città erano tutte così straordinariamente vicine tra loro che i viaggi non erano neppure faticosi. Le lingue erano diverse tra loro, ma erano tutte ugualmente diverse dall’inglese americano: come se il viaggiatore passasse da un luogo all’altro all’interno di un grande unico Paese i cui dialetti erano sconosciuti – ma la conoscenza dei quali era irrilevante. In un certo senso, nell’ottica degli americani viveva l’unica e la più reale unitarietà dell’Europa.
Due le linee, molto schematizzate, del discorso. In primo luogo, il percorso attraverso cui la cultura e la cultura politica delle classi dominanti statunitensi hanno “organizzato” il senso del loro distacco dalla madrepatria britannica-europea e costruito, nei decenni successivi all’indipendenza, la loro immagine dell’Europa in parallelo alla nuova immagine di sé. In secondo luogo, a partire dall’immagine sintetica di “quello che l’Europa è per noi (americani)”, avanzare alcune minime considerazioni su un possibile punto di partenza: un possibile calendario civile inteso come terreno comune – si può anche dire, come “denominatore comune” – da cui partire per costruire ramificazioni, articolazioni, allargamenti e approfondimenti di discorsi. In altre parole, partire da “qualcosa” che è intrinsecamente pubblico ed europeo, data la pressoché universale notorietà delle figure, degli eventi e dei luoghi che riunisce e mette in fila. Mi scuso per le ovvietà e semplificazioni.
Gli Stati Uniti sono nati liberandosi dell’Europa alla fine del Settecento, relegando quasi tutto quello che più la caratterizzava – le monarchie assolute e i ceti improduttivi, come il clero e l’aristocrazia; le attività improduttive, come le arti – negli scaffali del superfluo e del passato. Per Thomas Jefferson e John Adams l’Europa era quello che la repubblica non doveva essere, né diventare. Da allora, non è stata mai più cancellata dalla cultura statunitense l’idea della propria eccezionalità (l’”eccezionalismo”).
Dalle parole del vescovo Berkeley adottate come profezia (“Verso ovest è avviato il corso dell’impero…”, 1752), alla formulazione della Dottrina Monroe (1823), a quella del “Destino manifesto” (1845) e dopo la Guerra civile, raggiunto il ruolo di grande potenza economica, le loro varianti: la “conquista razziale” del continente e il “trionfo dei popoli di lingua inglese”, con cui Theodore Roosevelt e i suoi contemporanei “imperialisti” celebravano la raggiunta egemonia mondiale (senza ancora rinunciare alla “relazione speciale” che gli Stati Uniti avevano ricostituito con il Regno Unito), la partecipazione alle due guerre mondiali (decisiva per la vittoria) e cento altri, fino alla “fine della storia” di Francis Fukuyama, dopo il culmine raggiunto con l’affermazione globale del modello economico-sociale neoliberista.
La propria superiorità è stata affermata dagli statunitensi tante volte, In tanti modi diversi e con parole diverse, sia nei confronti dei paesi “arretrati”, sia – e forse soprattutto – dell’Europa.
Ripudiato l’impero inglese a fine Settecento, il punto più alto raggiunto da una potenza europea, nella seconda metà del secolo successivo la superiorità era dimostrata dalle decine di milioni di europei accolti come servitori, prove viventi dell’inferiorità sociale, culturale e razziale dell’Europa: a fine Ottocento, più dei tre quarti della classe operaia era composta di immigrati e dei loro figli.
Guardata da vicino, ma dall’alto, e con gli occhi, per così dire, degli Stati Uniti, l’Europa appare come una famiglia litigiosa che gli Stati Uniti hanno dovuto pacificare alcune volte nel corso del Novecento; ai cui membri hanno insegnato come si produce e come si spende, come si commercia e con quali soldi. Nel contatto con gli europei, gli immigrati in America e gli autoctoni residenti sulla nostra sponda dell’Atlantico, qualcosa hanno imparato anche loro, come dirò tra un attimo (per parlarne, si potrebbe partire dall’hegeliano rapporto servo-padrone). O forse, dagli immigrati, sono stati contaminati, come dicevano i puristi della razza e della religione.
Tutte le famiglie litigiose hanno basi comuni nella parentela, hanno una lingua comune e spesso hanno una casa comune, ma altrettanto spesso alla base dei litigi stanno le divergenze negli interessi materiali, nella gestione del denaro, delle eredità. Nella “famiglia” europea, che in fatto di litigi interni ha avuto pochi rivali, è sempre mancata la lingua comune (comuni sono solo le radici lontane, indoeuropee).
Oggi, per gli Stati Uniti, la mancanza di una lingua madre comune europea è una garanzia: le difficoltà di parlarsi e intendersi – nelle istituzioni comuni tutti si parlano in una lingua che non è la loro, l’inglese! – contribuiscono a tenere l’Europa divisa: centinaia di milioni di colonizzati e di migranti sono in grado di garantire che la proprietà della lingua è strumento di potere; e nel rapporto già sbilanciato per mille altri buoni motivi, anche la soggezione linguistica (inclusa quella mediatica) europea contribuisce all’egemonia statunitense.
Non è solo per quello che l’Europa si divide, naturalmente. In Europa non si è cittadini europei dappertutto allo stesso modo, negli stessi termini e con gli stessi diritti riconosciuti e “praticati”. Come anche le nostre discussioni hanno mostrato, le diversità politiche e le “memorie” che storia e politica hanno lasciato nelle società nazionali, nei cittadini europei, sono troppo recenti perché possano essere scavalcate.
Le minoranze dei “ricchi e istruiti” statunitensi non hanno ripudiato esplicitamente i dettami ideologici di sobrietà di costumi e consumi dei Padri fondatori. Ne hanno però allargato l’inclusività. Diventati aristocrazia loro stessi nel corso dell’Ottocento – aristocrazia del denaro – hanno adottato l’equivalente di tutte le aristocrazie: i consumi, o nelle parole di Thorstein Veblen, i “consumi cospicui”.
E se le aristocrazie europee hanno coltivato per secoli le arti per il proprio piacere e per il valore simbolico (e quindi politico) della loro esibizione, i nuovi aristocratici americani si sono dedicati a comperare i prodotti artistici (europei) e se ne sono riempiti le case. Li hanno presi in Europa, perché la severità dei Padri fondatori e la corsa individuale al denaro aveva privato l’America dell’arte. Non importa se nel Louvre gli veniva il mal di testa, come succedeva al Christopher Newman di Henry James. Sono state scritte decine di libri sul collezionismo degli americani, sulla “stagione” in cui sono stati fondati e aperti i musei nelle grandi città statunitensi a partire dall’ultimo quarto dell’Ottocento (Il Metropolitan Museum di New York aprì le sue porte nel 1872).
Della loro origine, a testimonianza dello stretto rapporto commerciale tra dollari e opere d’arte, stanno i nomi dei fondatori e le intitolazioni di tante sale ai donatori o prestatori. I grandi ricchi di New York, Boston e Chicago si vedevano come nuovi Medici.
Il rapporto con le arti ha cambiato il rapporto con la cultura: se si esclude una manciata di college e università nate nel periodo coloniale e poche altre sorte prima della Guerra civile, le università negli Stati Uniti sono nate nella seconda metà dell’Ottocento e il modello di organizzazione degli studi è stato tedesco.
Per imparare il mestiere gli storici e gli economisti andavano nelle università tedesche e gli artisti andavano nelle accademie europee. Tutti o quasi rampolli delle classi privilegiate o comunque danarose, dedicavano una parte della loro bildung al Grand Tour delle capitali, delle città d’arte, dei musei, dei palazzi e delle chiese. Quella era l’Europa. L’architettura gotica non era solo francese e così la romanica. La cupola di San Pietro e i colonnati del Partenone sono stati per tre secoli i modelli aulici su cui edificare cattedrali e campidogli in mezza Europa e poi anche in America. Le architetture del Rinascimento e del Barocco hanno avuto diffusione universale…Quella era l’Europa.
Ma la percezione “americana” non era altro che un riflesso realistico della realtà europea. Nell’inseguire quello che gli indicavano i loro Baedeker, e gli intermediari che commerciavano in opere d’arte, gli americani attraversavano i confini tra le nazioni come se non esistessero. Era un tempo in cui non ci volevano passaporti; d’altro canto, non facevano che seguire i percorsi degli artisti di cui inseguivano le opere. Oggi i passaporti sono necessari, per noi, ma non per Leonardo o Dürer.
Facciamo un salto. Per noi, oggi: a quale nazionalità appartengono Michelangelo e Raffaello e Rembrandt e Picasso? Mozart e Beethoven? Verdi e Wagner, e Puccini e Massenet? Copernico e Galileo e Newton, Madame Curie e Einstein? Erasmo? Linneo e Von Humboldt? Shakespeare e Ibsen e Brecht? Eisenstein e Fellini, Bergman e Wajda, Bunuel e Truffaut? Ma anche Greta Garbo e Edith Piaf, Maria Callas e Mastroianni, Lawrence Olivier e Placido Domingo, Giorgio Strehler e Simone de Beauvoir e Franz Kafka, Thomas Mann e Mikis Theodorakis, Johann Cruyff e Tony Sailer e Ingemar Stenmark, o Zatopek e Puskas, o ancora Indurain e Coppi e Jeannie Longo, o Merckx e Beckenbauer?…e così via, in un’infilata di domande senza fine sui nostri patrimoni europei.
Tutti cittadini dell’Europa, che nel resto del mondo vogliono dire la civiltà dell’Europa. Certo, dell’Europa è anche l’inciviltà delle guerre e del colonialismo e di altro ancora. In un ipotetico calendario ci saranno date di nascita e di morte delle persone, naturalmente; ma anche qualche perché: quando Mozart è andato per la prima volta in Italia? Quando Leonardo è traslocato in Francia? Quando è iniziata la Guerra d’Algeria? Quando Mann e Adorno sono emigrati negli Stati Uniti, e quando sono tornati in Germania? Quando il drammaturgo Vaclav Havel è diventato Presidente della Cecoslovacchia? Quando Picasso ha dipinto Guernica? Quando è stata costruita la Torre Eiffel? Quando sono stati liberati i campi di Dachau e di Auschwitz e da chi? Quando è stato bombardato il ponte di Mostar? Quando è stato pubblicato Ulisse e quando Il dottor Zivago? Quando Il mondo di ieri di Zweig e La storia della Rivoluzione russa di Trotsky? Quando il Diario di Anna Frank e Il secondo sesso di Beauvoir?
In sostanza: da come i ricchi americani hanno guardato e visto un’Europa delle arti, unitaria e senza confini e piena di storia, forse si può partire per pensare a un nostro calendario civile altrettanto pieno di storia (che non nega le memorie, ma che le utilizza come le utilizzano gli storici).
Questi elenchi sconnessi di nomi e “cose” – come lo sono la realtà e la storia che contiene tutto quanto – solo per semplificare ed esemplificare un’idea, da cui sono partito io per una riflessione che andrebbe portata più avanti di così – ma non da me in questo momento.