Quale forma possono trovare le memorie contese nello spazio pubblico? In particolare, come può la memoria di violenze e abusi compiuti dallo Stato iscriversi nel tessuto urbano? La creazione di una targa o di monumento implica uno snaturamento e un’edulcorazione del contenuto violento e conflittuale di simili eventi? E come dobbiamo valutare le contestazioni a luoghi di memoria simili? A Milano, i monumenti dedicati a Giuseppe Pinelli e ad altre vittime delle forze dell’ordine sono ottimi case studies per ragionare su questi e altri problemi, tornati d’attualità con le proteste del movimento Black lives matter per l’omicidio dell’afroamericano George Floyd durante un fermo di polizia.
Il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli morì poco dopo la mezzanotte del 15 dicembre 1969 precipitando dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi al quarto piano della questura di Milano, mentre era trattenuto in stato di fermo illegale, nel quadro – si scoprirà in seguito – di una macchinazione ordita dall’Ufficio Affari riservati del Viminale volta a criminalizzare gli anarchici, accusati ingiustamente della strage di piazza Fontana.
Giuseppe Pinelli
Il Questore calunniò Pinelli, affermando che si era suicidato a causa delle gravi prove a carico suo e del movimento anarchico, mentre l’indagine sulla sua morte fu ostacolata in ogni modo, con menzogne grottesche e plateali. Il commissario Calabresi, ritenuto responsabile della sua morte, anche se non si trovava nella stanza (i tre poliziotti e il carabiniere effettivamente presenti non hanno mai chiarito l’accaduto), fu assassinato da Lotta Continua il 17 maggio 1972, e quest’omicidio rappresentò un macigno ulteriore sulla strada della verità.
Strage di Piazza Fontana, interno della Banca
Nell’immaginario, il caso Pinelli divenne quasi subito il simbolo delle menzogne di Stato, delle distorsioni e degli abusi di potere intorno alla strage del 12 dicembre, ispirò pamphlet, pièce teatrali, canzoni, opere d’arte; per molti è stato di fatto “l’affaire Dreyfus” di Milano, osserva John Foot, a cui si deve lo studio più approfondito delle “memorie divise” attorno alla vicenda dell’anarchico1. Per questo motivo, dopo una targa commemorativa posta il 15 dicembre 1975 dai suoi compagni in piazzale Lugano, dove aveva sede il circolo “Ponte della Ghisolfa” (di cui il ferroviere era uno dei principali animatori), nel 1977 gli studenti del Movimento e i “democratici” milanesi (termine con cui amavano designarsi allora i militanti di sinistra) posero un’altra lapide di marmo, stavolta collocata provocatoriamente nell’aiuola antistante la banca in piazza Fontana, su cui era scritto che Pinelli era stato ucciso innocente nei locali della Questura. L’indagine sulla morte di Pinelli era stata definitivamente archiviata nel 1975 dal giudice istruttore D’Ambrosio, senza chiarire la dinamica dei fatti: escluso il suicidio, mancando le prove di un omicidio, il magistrato concluse che probabilmente Pinelli era caduto a causa di un malore, ipotesi che non soddisfò nessuno e fu messa in ridicolo (il famigerato “malore attivo”). La targa sfidava in modo aperto quel verdetto inconclusivo, sostituendovi l’affermazione di quella che era la verità per ampi settori dell’opinione pubblica. La lapide non aveva un permesso legale, ma prima di collocarla i promotori informarono la polizia e le autorità locali, e nessuno intervenne a rimuoverla: sebbene «abusiva», quindi, fu tacitamente accettata. Per molti, tuttavia, rappresentava un insulto alla memoria del defunto Calabresi. Fu oggetto di vivaci contestazioni da parte della Dc, della magistratura e di organizzazioni di polizia, finanche distrutta (si suppone da militanti della destra) nel 1981.
Decisivo per la tacita accettazione della lapide il fatto che a Palazzo Marino ci sia ancora il socialista ed ex partigiano Aldo Aniasi, sindaco anche al tempo della strage e della morte di Pinelli, che garantisce un clima tollerante verso simili iniziative. A Milano, difatti, sempre nel 1977, viene collocato un altro monumento “non istituzionale” in onore delle vittime delle forze dell’ordine: il “maglio”, massiccio monumento in ferro – scelto come “simbolo del lavoro” al termine di un affascinante percorso di elaborazione collettiva – dedicato e Roberto Franceschi, studente ucciso la sera del 23 gennaio 1973 da un agente di polizia (mai identificato), “e a tutti coloro che nella Nuova Resistenza dal ’45 ad oggi caddero nella lotta per affermare che i mezzi di produzione devono appartenere al proletariato”2. A renderlo ancor più significativo il fatto che nel 1977 la conflittualità sociale conosceva un nuovo picco e per fronteggiare il nuovo ciclo di protesta, dai tratti assai più violenti del ’68, la gestione dell’ordine pubblico si irrigidisce in modo brusco, con la morte di alcuni giovani nel corso di manifestazioni di piazza, da Francesco Lorusso a Giorgiana Masi. Il “maglio” fu collocato il giorno 16 aprile, nel secondo anniversario della morte di Claudio Varalli e Giannino Zibecchi, il primo ucciso da militanti neofascisti durante uno scontro, il secondo da una camionetta dei Carabinieri che lo investì, il giorno dopo, nelle conseguenti manifestazioni di protesta fuori da una sede del Msi: la dicitura sul monumento infatti era sufficientemente vaga da includervi tutti i caduti da posizioni “antagoniste”, sia per mano delle forze dell’ordine, sia negli scontri con l’estrema destra. I giovani del Movimento studentesco, insieme al gruppo di artisti coordinati da Enzo Mari, responsabili della realizzazione, enfatizzarono la scelta di realizzare un monumento fatto da operai, senza alcuna collaborazione del potere. Come la lapide per Pinelli, il “maglio” fu tacitamente accettato dall’amministrazione. Pur essendo un monumento dichiaratamente “di parte”, non subì però gli stessi attacchi della lapide, che rimase, negli anni, il punto focale delle tensioni e delle contestazioni scatenate dal mancato accertamento di una verità giudiziaria che desse giustizia alle vittime di piazza Fontana, a cui il ferroviere anarchico era ormai stabilmente associato come diciottesimo caduto. Un legame forte al punto che, quando nel 2009, è lanciata la proposta di collocare una targa per Pinelli nel cortile della Questura, luogo della sua morte, la vedova e le figlie si dicono contrarie: basta la targa in piazza Fontana3, che peraltro, dopo l’infelice tentativo del sindaco socialista Pillitteri di musealizzarla nel 1987 (bloccato da vivacissime opposizioni), nel 1994 ha finalmente ottenuto uno status istituzionale, grazie alla delibera comunale che ne determinava il ricollocamento al termine dei lavori di riqualificazione della piazza.
La presa di posizione della famiglia Pinelli si spiega col fatto che l’“ufficializzazione” non aveva messo in sicurezza la targa e la sua scomoda iscrizione. Nel marzo 2006, infatti, nottetempo, alcuni esponenti della giunta di centrodestra del sindaco Albertini l’avevano rimossa, sostituendola con un’altra, secondo la cui più innocua iscrizione Pinelli era un “innocente morto tragicamente”, non era stato ucciso. Ma dopo tre giorni di manifestazioni in piazza, la lapide originaria fu rimessa al suo posto, acconto a quella nuova. Da allora, come ama dire Claudia Pinelli, una delle figlie di Pino, il monumento è fatto delle due targhe, insieme. Non è soltanto, come correttamente nota Foot, promemoria permanente di una memoria divisa, ma trae la sua forza dall’essere la plastica rappresentazione del fallimento della giustizia penale, che ha dovuto archiviare un caso così grave e rappresentativo con valutazioni probabilistiche. “Una fragile forma di consenso poteva essere raggiunta solo accettando la divisione” perché “nessuna organizzazione – lo Stato, il sistema giudiziario, i media – era stata capace di imporre una sola versione accettabile di quanto era accaduto”, chiosa Foot. La coesistenza delle due targhe è il monumento alla verità mancata, cifra dell’abuso di potere non sanabile perché mai compiutamente chiarito.
La “guerra delle lapidi” sembra non finire mai. Gli esponenti politici di destra hanno continuato a chiedere la rimozione della targa degli studenti e dei “democratici”: nel 2013 si tentò di attaccarla indirettamente mediante la proposta di inserire, in tutte le targhe, la “verità giudiziaria accertata”4; Riccardo De Corato ne ha chiesto la diretta rimozione ancora nel marzo 20205. La memoria pubblica intorno al caso Pinelli resta divisa al punto che persino un segno assai poco “militante” come la targa commemorativa posta nel quartiere in cui egli nacque a cinquant’anni dalla sua morte (recante la semplice iscrizione “ferroviere, anarchico, partigiano, 18ma vittima innocente della strage di piazza Fontana”) è stata vandalizzata appena tre giorni dopo la sua collocazione6.
Luoghi di memoria come quelli dedicati a Pinelli rimangono, negli anni, un “sismografo politico”, loro malgrado. Il conflitto, per quanto stanco, povero di contenuto e spesso poco più che rituale, è simbolo della residua vitalità di quella storia, come simbolo delle menzogne e della violenza del potere. Significa che il caso Pinelli resta ancora oggi “memorabile”, per usare il bel termine con cui lo storico ebreo Yosef H. Yerushalmi designa le pagine storiche di cui si percepisce un valore e il significato per la vita presente7. La memoria di Pinelli provoca ancora, muove passioni, fa ancora paura. Finché manterrà questo portato, i suoi segni nello spazio pubblico sempre oggetto di attacchi. Cesseranno, forse, solo quando le vicende relative alla tragica fine dell’anarchico saranno consegnate all’oblio dell’irrilevanza. In uno studio sul Vietnam War Memorial di Washington, Van Hass ha scritto che le reazioni al “muro” costituiscono una sorta di “instancabile […] conversazione sull’America post-Vietnam” e una “continua negoziazione pubblica su patriottismo e nazionalismo”. Laddove il sito di memoria nasce su una ferita o dalle braci di un conflitto, vive proprio in questa perpetua discussione, dai toni talvolta fin troppo accessi. Conflitti e attenzione nascono quando un monumento accende, o riaccende, controversie politiche e sociali. In questo senso, i conflitti possono essere preferibili al silenzio pacifico dell’irrilevanza a cui sono consegnati tanti monumenti.
Il “maglio” dedicato a Franceschi e agli altri “compagni” caduti nel dopoguerra (anch’esso riconosciuto ufficialmente come monumento della città di Milano, nel 2013) non si è mai trovato al centro di polemiche simili; non ne è stata mai chiesta la rimozione, né viene vandalizzato. Ma la ragione risiede piuttosto nel fatto che la morte dello studente e degli altri caduti a cui è dedicato è confinata a un orto di memoria ben più ristretto, per quanto devoto e amorevole (per la fine dell’agosto 2020 per esempio la Fondazione Franceschi ha lanciato pubblicamente un workshop artistico collegato al monumento, legato a temi politici d’attualità)[8]. Nemmeno dopo la caduta del muro di Berlino qualcuno ha avuto da ridire sull’iscrizione che omaggia le lotta per il possesso dei mezzi da parte del proletariato (o, semplicemente, di chi li usa). “Una frase attualissima”, dichiarò battagliera come sempre Lydia Franceschi, madre di Roberto, ormai anziana, nel 2013. In teoria sì, mutatis mutandis, se consideriamo le angustie, lo sfruttamento e le sperequazioni che segnano la vita di così tanti lavoratori, soprattutto giovani. Ma quella frase resiste intatta sul “maglio” – collocato, ironia della sorte, davanti all’università Bocconi – come semplice documento, il fossile di un’altra epoca, intatto perché condannato all’irrilevanza dal trionfo delle politiche neoliberiste.
1 John Foot, Fratture d’Italia. Da Caporetto al G8 di Genova. La memoria divisa del Paese, Rizzoli, 2009, pp. 404-427; il capitolo su Pinelli è consultabile gratuitamente online per gentile concessione dell’autore all’indirizzo http://www.minimaetmoralia.it/wp/john-foot-fratture-ditalia/
2 https://www.fondfranceschi.it/roberto-franceschi/monumento-a-roberto-franceschi/
3 https://www.repubblica.it/2009/05/sezioni/cronaca/pinelli-vedova/lapide-pinelli/lapide-pinelli.html
4 http://www.rifondazionemilano.org/nws/pinelli-il-ritorno-dei-ladri-di-lapidi/
5 https://www.osservatoremeneghino.info/05/03/2020/de-corato-rimuvere-la-targa-abusiva-per-pinelli/
6 https://www.lastampa.it/milano/2020/02/03/news/milano-rotta-la-targa-del-comune-che-ricorda-pinelli-1.38419526
7 Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, Giuntina, Firenze 2011.
8 “Dall’ombra”, workshop ideato e condotto da Patrizio Raso intorno al monumento a Roberto Franceschi, dal 26 al 28 agosto 2020, https://www.fondfranceschi.it/dall-ombra/