Università degli studi di Pavia

I disastri e le catastrofi hanno generato nel tempo e nelle comunità problemi di memoria e narrazioni conflittuali. Ciò si evidenzia in molti casi sotto forma di rimpianto per una mitica età dell’oro, per un passato “splendido e perduto”. Per esempio, nel caso di gravi danni da inquinamento industriale, tali nostalgie si concentrano spesso sulle fonti di impiego ben pagate e stabili del periodo precedente alla deindustrializzazione, tanto da “mettere nell’angolo”, a trascurare o minimizzare gli effetti dannosi delle produzioni, magari non denegati ma talvolta confinati in un processo di riconoscimento del danno del tutto individuale (Garruccio 2016, p. 57).

I sociologi hanno sottolineato come i disastri, naturali o tecnologici, possono essere alla base di un mutamento sociale a livello comunitario. Gli effetti e la profondità di tale mutamento dipendono dalla “vulnerabilità” della comunità locale: vulnerabilità fisica, sociale, economica, politica. Da qui discende la possibilità di reagire efficacemente al dramma, di interiorizzarlo in una visione collettiva tale da costituire persino una “opportunità”, una “terribile occasione” di cambiamento o di resilienza. Ciò dipende da svariati fattori interconnessi: tra gli altri, la capacità della comunità di compattarsi di fronte al disastro; la presenza di forti legami di integrazione orizzontale, con un ampio capitale sociale diffuso tra i cittadini; relazioni robuste tra la comunità e il mondo esterno, le comunità confinanti, le istituzioni politiche sovraordinate (Rostan 1998, pp. 13-53).

Tuttavia, spesso le catastrofi tendono ad allargare fratture preesistenti e a provocarne di nuove, a generare conflitto sociale e politico all’interno della società locale. Il livello di fratture comunitarie indotte per esempio da un disastro industriale dipende da svariati fattori, quali fra gli altri: il ruolo e l’importanza dell’insediamento produttivo nel tessuto cittadino e il conseguente livello di identificazione della città nella “sua” fabbrica (come nei casi di “fabbrica-città”); la preesistenza di mobilitazioni ambientaliste, la loro forza e il loro radicamento; l’atteggiamento dei sindacati, delle amministrazioni comunali, degli enti intermedi, delle strutture associative cittadine; il ruolo stesso della proprietà industriale, il suo paternalismo, la sua capacità di “fare opinione” e di insinuare nell’opinione pubblica dubbi, minimizzazioni, perplessità, contrapposizioni; la situazione economica della regione circostante e del Paese in generale, in grado o meno di fornire alternative alle ricadute occupazionali. Insomma, la reazione delle comunità discende da quel livello di “vulnerabilità” dovuto a fattori endogeni ed esogeni a cui si è fatto cenno, da quella capacità di integrazione, dalla strutturazione sociale della cittadinanza: tutti fattori che possono tramutare un disastro in opportunità di rinascita oppure no (Rostan 1998, p. 27).

Una reazione di difesa classica delle comunità nei confronti dei disastri, così come, in generale, di fronte a eventi violenti e traumatici anche di natura bellica, è quella del rifiuto dello stigma (Stefanizzi-Niessem-Scisci 2016, pp. 55 e ss.): reazioni analoghe si sono riscontrate in alcune comunità vittime di stragi naziste nel corso della Seconda guerra mondiale (Pezzino-Baldissara 2004). Tale rifiuto vorrebbe agevolare il rapido ritorno alla normalità economica e sociale, dopo un trauma che concentra l’attenzione delle comunità vicine – e talvolta dell’opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione nazionali e internazionali – sulla comunità colpita. Ciò può far nascere una sensazione di ghettizzazione, talvolta purtroppo giustificata: “gli altri” possono tendere a considerare la zona colpita come un “luogo pericoloso”, da cui tenersi lontani, da evitare il più possibile (Ziglioli 2010, p. 46).

Il rifiuto dello stigma può risultare particolarmente forte laddove gli imprenditori della memoria e gli enti intermedi (amministrazioni locali, associazioni, partiti, sindacati, eccetera) hanno lungamente rinunciato a gestire le conseguenze sociali del dramma e/o il trade-off tra lavoro e salute. Si può generare così una forma di rimozione della memoria, una vera e propria “chiusura a riccio” della comunità rispetto a conseguenze che, una volta “esplose”, non riescono a essere integrate nella percezione e nell’identità cittadina, all’interno di definiti «quadri della memoria» collettiva, i quali permetterebbero «la conservazione, lo sviluppo e l’esplicitazione dei contenuti della memoria dei singoli» (Jedlowski  2001, p. 22). Tal quadri costituirebbero «il prodotto della sopravvivenza di gruppi che, nella vita quotidiana, rappresentano i punti di riferimento più immediati e familiari per il soggetto […]. Essi propongono dei modelli di comportamento la cui struttura ed il cui significato trovano giustificazione nell’ambito di specifiche memorie collettive. Questi referenti hanno senso finché sopravvivono le identità collettive che, sull’idea di una memoria condivisa, hanno costruito i propri confini identitari» (Rampazi 2009, p. 66). Al contrario, il dramma, con le sue conseguenze, viene espunto, ostracizzato ed esorcizzato, e la stessa elaborazione delle malattie e dei lutti rischia di restare confinata alla sfera privata e familiare, senza mai diventare collettiva. Si sviluppano allora narrazioni frammentate e conflittuali degli eventi, che possono emergere anche a distanza di molti anni (Ziglioli 2016, pp. 126-137; Gribaudi 2019).

La crisi delle identità collettive ha prodotto la progressiva perdita di mordente delle organizzazioni di massa, e la loro sostituzione nel processo rappresentativo con strutture associative sul modello dei comitati, per loro natura parziali e frammentate. Tale processo ha creato un problema ulteriore, anche in relazione alla possibilità della popolazione di essere coinvolta nei processi decisionali circa il futuro destino dei territori colpiti, del loro sviluppo economico, della pianificazione urbanistica (Bulsei 2005, pp. 82 e ss.). In questi casi, le ricadute concrete possono essere così forti da rendere estremamente complessa e delicata l’azione dei pubblici poteri nella gestione dell’emergenza e nella ridefinizione degli assetti economici, sociali e politici di un Paese, di una Regione o di una città (Ziglioli 2017, pp. 5-9). Insomma, quello della costruzione della memoria non è un problema che riguarda solo lo storico o il sociologo in astratto, ma è un fattore che influenza direttamente e profondamente le capacità di rinascita di una comunità dopo una catastrofe.

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