Università degli Studi di Milano-Bicocca

L’obiettivo di ogni progetto di educazione alimentare è costituito, innanzitutto, dallo sviluppo di una sempre maggiore consapevolezza da parte di bambini e ragazzi di ogni età rispetto al proprio rapporto con il cibo. Un rapporto, si può affermare, che dovrebbe permettere loro di contestualizzare la produzione e il consumo di cibo in un sistema di valori, comportamenti e relazioni capaci di promuovere una cultura sostenibile del cibo. Da questo punto di vista, l’informazione fondata e rigorosa, la consapevolezza e la responsabilità in materia di cibo e di alimentazione sono, dunque, dimensioni che occorre promuovere nelle giovani generazioni affinché diventino fautrici di comportamenti virtuosi attraverso percorsi di crescita che possano coniugare educazione, piacere e gioco. Come mai, però, si parla di “gioco” in relazione ad un tema – l’alimentazione – così serio e impegnativo? Come si può legare l’idea di “gioco” con una questione che porta con sé aspetti e problemi tanto delicati e/o drammatici, quali la fame e la scarsità di cibo, da un lato, e la sovralimentazione e i problemi alimentari, dall’altro?

Una prima ragione per cui si parla di gioco in questa sede riguarda il fatto che esso è definibile come un osservatorio privilegiato dello sviluppo affettivo, cognitivo e sociale dei bambini e dei rapporti con e fra i bambini, benché la dimensione ludica coinvolga soggetti di tutte le età. Non è facile, però, definire cosa si intende per gioco, soprattutto per il carattere multiforme che caratterizza le attività ludiche. Braga e Morgandi (2012, p. 13), a questo proposito, sottolineano che la difficoltà di elaborare una definizione univoca di gioco risiede nel fatto “che comprende un’ampia gamma di manifestazioni e condotte anche molto diverse tra loro, dai più semplici giochi motori, come lanciare e riprendere una palla o rotolarsi sul pavimento, ai giochi da tavolo, dai giochi simbolici a quelli di competizione e di pazienza”. Un aiuto in questo lavoro definitorio può giungerci se osserviamo le definizioni di gioco che sono state formulate nel corso dei secoli da noti studiosi di campi disciplinari diversi – da Aristotele a Kant, da Locke a Dewey, solo per citarne alcuni. Tali definizioni convergono nell’idea che l’attività ludica si tratti “di una condotta spontanea, di un’occupazione volontaria, liberamente scelta dal soggetto (il gioco può essere proposto, ma non imposto), che si fa per il puro piacere di farla e che si colloca al di fuori dalle urgenze e dai confini della vita ordinaria” (2012 p. 14-15). Un’ulteriore specificazione la si trova nel celebre saggio Homo ludens di Huizinga (1938), il quale definisce il gioco “un’azione, o un’occupazione volontaria, compiuta entro certi limiti definiti di tempo e di spazio, secondo una regola volontariamente assunta, e che tuttavia impegna in maniera assoluta, che ha un fine in se stessa; accompagnata da un senso di tensione e di gioia, e dalla coscienza di ‘essere diversi’ dalla ‘vita ordinaria’” (Huizinga, 2002, p. 35).


2018, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Laboratorio didattico per bambini.
Fotografia tratta dall’iniziativa Food for all! Cibo diverso, cibo per tutti

 

Il gioco come far finta

Come afferma Bateson, però, si tratta di una dimensione “naturale” dell’esperienza che, nel contempo, è “culturale e situata” e che pertanto rimanda al sistema di valori e di modelli educativi che caratterizzano un determinato contesto sociale e culturale. Bateson è anche l’autore che ha cercato di esplorare la differenza fra gioco e  “non-gioco”,  spiegando che “gioco non è il nome di un atto o di un’azione; è il nome di una cornice per l’azione” (1976, p. 71): ciò che definisce il gioco non è tanto il contenuto dell’attività in corso ma il segnale che porta il messaggio “questo è un gioco” che i giocatori si scambiano, un messaggio-cornice che implica una capacità di meta-comunicazione, ossia un messaggio che permette di comprendere in che quadro posso interpretare i comportamenti e i segnali dell’altro. E, infatti, l’atto del giocare costituisce la capacità di creare cornici e di inserire i propri e gli altrui comportamenti in un orizzonte di senso, a seconda del contesto e delle modalità in cui si mettono in atto. In continuità con tale concezione, Mannuzzi sottolinea che non possiamo, ad esempio, affermare che saltare è un gioco mentre mangiare non è un gioco; “piuttosto sono i segnali, i comportamenti scambiati attraverso una comunicazione non verbale implicita che possono dirci se stiamo giocando a saltare o che stiamo giocando a mangiare: ciò che trasforma quelle stesse azioni in un gioco o meno” (2002, P.44).

Secondo le proposte degli autori appena osservati, il gioco costituisce sempre un’azione di “fare finta”. Ovvero, il “far finta” di mangiare, di allestire la tavola o di preparare da mangiare per gli amici, per le bambole o per gli adulti, è una pratica che permette ai bambini di immedesimarsi nella vita adulta, di sperimentare ruoli e funzioni, così come di rielaborare i fatti quotidiani, le relazioni in cui sono immersi e, dunque, di ripercorrere sentimenti ed emozioni che da essi sono generati.

Anche Winnicott (1974) ci mostra come il gioco assuma un ruolo determinante nel processo di formazione del bambino, mettendo in evidenza il suo ruolo psichico ed evolutivo. il famoso psicologo infantile statunitense, infatti, descrive il gioco come una sorta di “zona franca” fra l’Io e il mondo esterno, fra il dentro e fuori dalla realtà, dove si mette in atto un distanziamento dal reale, che permette la comprensione e la rielaborazione di esso. Quello ludico è, dunque, un particolare atteggiamento nei confronti della realtà mediante il quale si getta un ponte fra il mondo interiore e il mondo esterno e che consente la separazione, ma anche l’integrazione e la conciliazione tra questi due mondi. Poiché nutrire e nutrirsi sono atti altamente simbolico affettivi e relazionali, a maggior ragione, questa “zona franca” di cui parla Winnicot costituisce un mondo protetto in cui provare a comprendere e rielaborare quello che succede nella realtà, quando abbiamo fame, quando siamo a tavola in famiglia, quando sperimentiamo momenti di convivialità allargati. In coerenza con questa prospettiva, Pontecorvo e Arcidiacono sostengono che da sempre la tavola è stata considerata “un palcoscenico (…) in cui si costruiscono alleanze, si rinsaldano amicizie, nascono o muoiono copie, si fa politica (…) secondo regole che variano per epoca, paese, cultura” (2007, p. 61).  Giocare e “far finta”, in un siffatto territorio, rappresentano allora un terreno fertile per sperimentare, per “esercitarsi” nelle amicizie, nelle relazioni, nelle alleanze.


2018, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Laboratorio didattico per bambini.
Fotografia tratta dall’iniziativa Food for all! Cibo diverso, cibo per tutti

 

Gioco come esplorazione e apprendimento

Il gioco, però, costituisce anche un campo per esplorare, conoscere la realtà esterna e acquisire competenze, anche se non è facile stabilire e riconoscere i confini delle diverse manifestazioni dell’agire infantile e umano: giocare, esplorare, acquisire padronanza. La dimensione del gioco costruttivo, in particolare, indicata anche da Piaget (1945). come categoria trasversale alle diverse forme ludiche, restituisce molto bene il complesso intreccio tra gioco e “saper fare”, tra gioco e padronanza. Da questo punto di vista, si potrebbe riprendere la tradizione Bruneriana (1972) e affermare che il gioco attiva l’esplorazione, la padronanza, l’immaginazione, nel suo carattere fondamentale di attività combinatoria di fare e di- sfare, di pre e post-esercizio di abilità, di creatività intesa come apertura al possibile e immaginazione ma anche come soluzione di problemi, ha a che fare sia con l’esplorazione sia con la trasformazione della realtà.  Ad esempio, nel contatto diretto con il cibo, che si qualifica anche come un gioco, il bambino non sviluppa solo una dimensione affettivo-relazionale, ma anche sensoriale e corporea: impara a distinguere colori, a conoscere le diverse sostanze e le diverse consistenze, a collegare un certo tipo di cibo alla sua capacità di saziare. La relazione tra gioco ed esplorazione e tra gioco e apprendimenti è ben sintetizzato nel seguente passaggio di Braga e Morgandi (p. 20).

La questione del rapporto tra gioco ed esplorazione rimanda anche a quella del rapporto tra gioco e lavoro o gioco e didattica che, anche nella pratica educativa, porta spesso a separare e talvolta a considerare contrapposte queste dimensioni di esperienza che invece, nel fare dei bambini (quanto più sono piccoli), sono molto intrecciate e concomitanti: si tratta infatti di una separazione che esiste più nella mente degli adulti che nelle intenzioni dei bambini che anche quando giocano fanno “sul serio”, si misurano con i problemi e le difficoltà della vita reale e che anche quando sono impegnati in una “attività” proposta dall’adulto, se lasciati liberi di agire e di sperimentare, affrontano il compito anche nello spirito del gioco.

Giocando i bambini pensano, rimuginano, provano, sbagliano, imparano, si misurano “a modo loro” con le scoperte, le difficoltà e le emozioni che incontrano nella vita quotidiana. Giochi individuali e giochi di società, giochi simbolici e di simulazione o giochi costruttivi e di ragionamento, possono diventare uno strumento molto efficace per far esplorare e comprendere aree complesse della realtà che investono il tema del cibo: il tema della scarsità e dello spreco, il tema della filiera alimentare e delle interconnessioni sistemiche in cui essa è immersa, piuttosto che il tema della sostenibilità ambientale. Molte sono le esperienze e anche le produzioni ludiche che in questi anni si sono cimentate con questa sfida; esistono, per fare un rapido esempio, insegnanti e scuole, ma anche associazioni del privato sociale che hanno sviluppato interessanti giochi per comprendere i rapporti fra i paesi industrializzati e i paesi emergenti nella produzione, distribuzione e consumo del cibo.1

 


2018, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Laboratorio didattico per bambini.
Fotografia tratta dall’iniziativa Food for all! Cibo diverso, cibo per tutti

 

 

 

Gioco come fatto culturalmente situato

Affrontare queste tematiche così delicate, anche se in relazione al gioco, richiede di prendere in considerazione un ultimo aspetto, non certo in ordine di importanza, che ne delinea un ulteriore piano di definizione e complessità: l’aspetto culturale. Secondo Huizinga la civiltà umana nel suo complesso nasce e si sviluppa nel gioco, soprattutto se si tiene conto del fatto che il gioco esisteva già prima di ogni traccia di cultura. Nel considerare il gioco come un “fatto primario”, come base e fattore di cultura, nei suoi caratteri fondamentali di gara/lotta e rappresentazione Huizinga ritiene che le grandi attività della società umana – il linguaggio, il culto, il diritto, la guerra, il sapere, la filosofia, il mito, l’arte – siano tutte intessute di gioco, “sub specie ludi” appunto, e che la relazione tra cultura e gioco sia da ricercarsi soprattutto nelle forme superiori del gioco sociale. In un celebre testo Fink (1987, p. 32) fornisce un’ulteriore caratterizzazione di tale centralità ontologica del gioco per l’essere umano.

Il gioco non è un’apparizione marginale nel paesaggio vitale dell’uomo, non è un fenomeno contingente, solo occasionalmente emergente. Il gioco appartiene in modo essenziale alla costituzione ontologica dell’esistenza umana, è un fenomeno esistenziale fondamentale. Certo non è il solo, ma è specifico e indipendente, e non può derivare dagli altri aspetti della vita.

Gli studi antropologici hanno messo in risalto come il gioco sia un fenomeno rivelatore di meccanismi mediante i quali le società elaborano e trasmettono i propri valori e la propria organizzazione: i modi di giocare e i giocattoli riflettono la cultura di appartenenza, in quanto si basano su simboli e convenzioni sociali, e il gioco è un fenomeno storicamente e culturalmente situato e, quindi, un potente evidenziatore dei modelli culturali di un dato contesto sociale. Più recentemente i lavori di Rogoff, che si collocano al confine tra psicologia e antropologia dell’educazione, collegano la variabilità delle forme e delle modalità ludiche alle diverse possibilità di accesso dei bambini alle attività della comunità. Il concetto stesso di gioco è culturalmente mediato e situato, così come lo sono i modi di concettualizzare il processo di sviluppo e di apprendimento, e la nozione di “partecipazione guidata” è introdotto dalla studiosa proprio per descrivere le modalità a cui ricorrono gli adulti per sostenere e promuovere l’apprendimento. E questo vale anche per le questioni legate al cibo e all’alimentazione: il fatto che nella nostra società, almeno fino a qualche tempo addietro, fossero fondamentalmente le bambine a “far finta” di cucinare e di distribuire cibo, e che, comunque, i cuochi più famosi e prestigiosi siano stati e siano ancora soprattutto gli uomini, non può che interrogarci sulle nostre norme sociali, più o meno implicite, più o meno consapevoli.

Le brevi considerazioni che abbiamo sin qui delineato, facendo riferimento ad alcuni dei principali autori che si sono occupati di questo tema, richiamano al fatto che il gioco non costituisce una materia da prendere “alla leggera” e che, se intendiamo allargare la sua azione all’educazione alimentare e ambientale è necessario riflettere con estrema attenzione su quali obiettivi educativi ci poniamo, su quali delicate sfere dello sviluppo umano, infantile e non, andiamo a sollecitare con una certa attività ludica e quali processi socio-cognitivi, emotivi e relazionali intendiamo promuovere ed effettivamente andiamo a mettere in atto.

 


2018, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Laboratorio didattico per bambini.
Fotografia tratta dall’iniziativa Food for all! Cibo diverso, cibo per tutti

 

 

Bibliografia

Bateson G., (1976), Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano.

Braga P, Morgandi T. (2012), Il gioco nei servizi e nelle scuole per l’infanzia, Junior-Spaggiari, Parma.

Fink, E. (1957), Oasi della gioia. Per una ontologia del gioco. Trad. it. (1987), Edizioni 10/17, Salerno.

Manuzzi P. (2002), Pedagogia del gioco e dell’animazione, Guerini, Milano.

Piaget J. (1945), La formazione del simbolo nel bambino. Trad. it. (1979), La Nuova Italia, Firenze.

Rogoff B. (2003), La natura culturale dello sviluppo, Raffaello Cortina, Milano.

Rogoff B. (1990), Imparando a pensare. L’apprendimento guidato nei contesti culturali. Trad. it. (2006) Raffaello Cortina, Milano.

Pontecorvo C., Arcidiacono, F. (2007), Famiglie all’italiana: parlare a tavola, Raffaello Cortina, Milano.

Bruner, J. S., Jolly, A., Sylva, K. (1976), Play: Its role in development and evolution, Harmondsworth: Penguin.

Staccioli G. (1998), Il gioco e il giocare, Carocci, Roma.

Winnicot D.W. (1971), Gioco e realtà. Trad. it. (1974), Armando editore, Roma.


1 Per una sintesi critica della storia del pensiero pedagogico sul gioco si veda il testo di Staccioli (1998).

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