Il 7 Febbraio 1992, i 12 capi di Stato dei Paesi membri dell’allora Comunità Europea decisero di firmare uno dei trattati più innovativi della storia europea nella città olandese di Maastricht. Benché non si sappia con certezza per quale motivo il governo olandese abbia proposto una cittadina di medie dimensioni rispetto ad alternative più scontate, possiamo azzardare un’ipotesi.
Logica vuole che la scelta del luogo si leghi allo spirito del Trattato. Maastricht, in questo senso, si trova vicino al confine tra Germania e Belgio.
La città, già simbolica nel teatro dei due conflitti mondiali che insanguinarono l’Europa (si pensi alla battaglia di Maastricht della Seconda guerra mondiale), diventa particolarmente significativa nel contesto dell’integrazione europea: un territorio che era periferico nel quadro dello Stato-nazione diventa centrale una volta che i confini amministrativi tra Stati scompaiono, e il libero scambio riconfigura i rapporti territoriali creando nuovi centri (e nuove periferie). In questo senso, nel quadro del Mercato Comune, Maastricht rappresentava già un laboratoire d’expérimentations per l’integrazione europea: un territorio di confine in cui i “confini” immateriali sfumano e identità differenti — nazionali in primis — possono incontrarsi e scambiare liberamente, rimescolandosi.
In questo spirito, il Trattato di Maastricht è stato davvero uno degli snodi critici della storia dell’integrazione europea. Sin dal suo preambolo, il Trattato aveva forti ambizioni: i dodici Capi di Stato si dichiaravano “decisi a segnare una nuova tappa nel processo di integrazione europea intrapreso con l’istituzione della comunità europea”, rammentando “la necessità di creare solide basi per l’edificazione dell’Europa futura”. A queste ambizioni seguivano fatti di un certo peso. Con il Trattato, 300 milioni di cittadini di 12 nazioni diverse divennero (anche) cittadini europei. Il Trattato avrebbe rafforzato i poteri del Parlamento Europeo: per creare nuove leggi, Parlamento e Consiglio avrebbero dovuto trovarsi d’accordo. Inoltre, la cooperazione tra Stati sarebbe stata estesa alla giustizia e alla politica estera. Quando però guardiamo alle innovazioni di Maastricht è impossibile non chiedersi quale sia il peso effettivo che queste hanno avuto sulla vita dei cittadini: il Trattato di Maastricht viene ricordato principalmente per aver creato la moneta unica europea, l’Euro, e aver definito (in parte) regole che hanno in buona parte condizionato la politica economica dei Paesi dell’Area Euro, come quelle riguardanti il debito pubblico e l’inflazione.
Queste regole hanno avuto un impatto molto forte specialmente nella vita dei cittadini dei Paesi mediterranei, dove dal secondo dopoguerra si era affermato un modello economico basato su alti livelli di spesa pubblica, attraverso un forte intervento dello Stato nell’economia. Maastricht prima, e l’Euro dopo, hanno cambiato questo modello, imponendo parametri rigidi su inflazione e deficit pubblico, e sottraendo ai governi nazionali la possibilità di svalutare la moneta. Nel valutare le conseguenze di questa scelta sarebbe bene rifuggire da una visione eccessivamente di parte, in un senso o nell’altro.
La creazione dell’Euro è stata come una scossa di terremoto: tutti l’hanno avvertita, ma in modo differente. Nel dibattito pubblico italiano, specie ad uso dei partiti e movimenti euroscettici, è diventata proverbiale l’espressione “ai tempi della lira, un caffè costava solo 1000 lire”.
Al contempo, i difensori dell’euro ci dicono che il prezzo al consumo di computer ed elettrodomestici è sceso proprio grazie all’euro. La stessa contrapposizione si può osservare in campo istituzionale. Se gli euroscettici ci ricordano che l’Italia ha rinunciato alla svalutazione competitiva, gli euro-entusiasti ci dicono che il livello di scambi commerciali con partner strategici come la Germania è aumentato esponenzialmente. Queste contrapposizioni, all’apparenza paradossali, possono aiutarci a comprendere come l’Italia si collochi rispetto alla scelta di Maastricht: non si tratta di prendere posizione, ma essere consapevoli dell’intero quadro.
Nella cornice dell’integrazione europea, l’aumentato livello di scambi commerciali avrebbe richiesto maggiore stabilità economica. Questo era già evidente con il Mercato Comune negli anni ’60. Il problema è che la Comunità non era un’area economica strutturalmente omogenea: si pensi a quanto potevano essere differenti l’economia della Germania, caratterizzata da conti pubblici in ordine e una bassa inflazione, rispetto a quella dell’Italia, il cui debito pubblico era in crescita e l’inflazione rischiava sempre di finire fuori controllo per via delle svalutazioni competitive della lira e che consistevano nel ridurre il valore nominale della moneta per rendere i prodotti d’esportazione più competitivi rispetto alla concorrenza rappresentata da altri paesi europei. Proprio le differenti politiche monetarie rischiavano di creare tensioni tra i partner europei. La svalutazione, specialmente in congiunture economiche sfavorevoli, è una forte tentazione per chi prende decisioni di politica economica, in quando offre un’immediata ventata d’ossigeno alle imprese che sono in grado di vendere più facilmente i propri prodotti all’estero grazie a un cambio favorevole.
La svalutazione può però avere effetti negativi: il contrappasso rispetto alla facilità di vendere i propri prodotti all’estero è rappresentato dalla difficoltà di approvvigionarsi di materie prime che non sono presenti sul territorio nazionale. In Italia, in particolare, mancano le materie prime necessarie per creare prodotti ad alto contenuto tecnologico: basti pensare al silicio.
Si capisce quindi la natura della scelta di fronte a cui si trovarono governo e istituzioni italiane nel 1992: avrebbero potuto continuare con le svalutazioni, e porsi su una fascia “bassa” del mercato, oppure legarsi all’albero maestro dell’Euro e resistere alle “sirene dell’inflazione”: il famoso “vincolo esterno”. La scommessa era che, alla lunga, il sistema di imprese sarebbe stato in grado di sfruttare le opportunità offerte da una moneta forte — ispirata abbastanza esplicitamente al marco tedesco — per produrre beni più tecnologici o con materie prime migliori, e quindi in grado di difendere la propria posizione di mercato rispetto a nuovi competitor internazionali. Siamo negli anni in cui Cina, India, Brazile e Russia si stavano affacciando sul mercato globale, un fatto da non sottovalutare se vogliamo capire il perché di Maastricht per l’Italia. Questo aggiustamento non è sempre stato automatico. Certamente l’economia italiana, e l’Area Euro tutta, avrebbero beneficiato di livelli di investimento più alti. Questa consapevolezza è sempre maggiore anche presso gli stati europei “frugali”, elemento che offre speranza per il futuro.
Resta un ultimo punto: il caffè a 1 euro. Sarebbe facile scartare questa obiezione come “populista” e mostrare che, nel complesso, i prezzi sono rimasti stabili. Questo è sicuramente vero in termini aggregati: il prezzo dei caffè (e di altri prezzi detti “di menù”) è aumentato, ma il prezzo dei computer è diminuito, e nel grande ordine delle cose non abbiamo né vinto né perso dal cambio lira-euro.
Va però riconosciuto che una persona, normalmente, non guardi ai fenomeni in un contesto così ampio. E mentre normalmente acquistiamo un computer o un elettrodomestico solo una volta per lungo tempo, compriamo caffè anche più di una volta al giorno.
Proprio per la natura del bene in questione, questo genere di rincari ha effetti regressivi, avvertiti di più da chi è più debole economicamente. Il rincaro del caffè, in altre parole, è più visibile della diminuzione dei prezzi del computer, e un individuo può avere la falsa, ma ragionevole, impressione che il costo della vita sia salito a causa dell’Euro. Le cose, come abbiamo visto, non stanno esattamente così. Ma possiamo arrivare ad un giudizio complessivo equilibrato solo tenendo conto di tutti i fatti rilevanti.
Cosa rappresenta dunque Maastricht? Ha rappresentato, in primo luogo, uno shock per le economie europee, avendo conseguenze positive e conseguenze negative, spesso in modo asimmetrico rispetto a diversi gruppi sociali. Strategicamente necessario, è diventato impopolare negli anni dell’austerity. E nessuno ha davvero digerito quel caffè a un euro. Ma ci ha anche permesso di conservare lo status di potenza industriale competitiva, assorbendo il colpo che sarebbe arrivato dalle economie emergenti, tra tutte la Cina. E ha permesso alle economie europee di integrarsi in misura crescente, tutelando i partner commerciali e favorendo così gli scambi. In questo senso, Maastricht ha rappresentato, e rappresenta tutt’oggi, un atto storico di portata rivoluzionaria, che come ogni rivoluzione scombina gli equilibri esistenti creandone di nuovi: capire e spiegare il trade-off tra vecchi e nuovi equilibri è il nostro modo per onorare l’importanza storica e la complessità del Trattato di Maastricht.
Approfondisci con le fonti dal Patrimonio
Alan S. Milward, “L’Europa in formazione“, in Storia d’Europa, vol. 1, 1999, p. 218-219.
Sidney Pollard, “L’integrazione politica ed economica dell’Europa” in Storia d’Europa, vol. 5, 1999, p. 174.