Pubblichiamo qui un estratto di “Caracas: città ineguale”, un saggio di Alfredo Brillembourg raccolto nel volume Atlante delle città. Nove (ri)tratti urbani per un viaggio planetario:
Il lavoro a Caracas è stato un utile campanello d’allarme. Ha sollevato le domande fondamentali cui, a nostro avviso, i progettisti e gli architetti devono rispondere nel Ventunesimo secolo: come affrontare il caos e i cambiamenti improvvisi e imprevisti del clima politico? Come rispondere in modo produttivo alle esigenze di tempo e spazio e ai problemi derivanti da crescita demografica e migrazione? Se lo status quo è il disordine e l’antagonismo, come esercitare una disciplina che imponga ordine e richieda consenso? Non avevamo tutte le risposte per affrontare le complesse realtà politiche, sociali ed economiche di Caracas. Ma abbiamo imparato che, per realizzare qualsiasi cambiamento, i nostri principi guida devono privilegiare l’integrazione rispetto all’analisi, le relazioni tra le cose rispetto alle cose stesse, la crescita e il cambiamento rispetto alla stasi. Ancora più importante, abbiamo capito che l’architetto non può elevarsi al di sopra della mischia, lontano e isolato dalle condizioni del terreno. Per avere una qualche speranza di effettiva realizzazione, dobbiamo educare noi stessi alla politica, all’economia e alla sociologia; dobbiamo capire le forze che spingono i cambiamenti nel tessuto urbano.
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Per gran parte degli ultimi vent’anni, il nostro lavoro di ricerca e di progettazione ha riguardato essenzialmente interventi relativamente discreti: strutture individuali, dalla palestra verticale alla Torre di David; tessuti connettivi, come la funivia e la metropolitana di Avenida Lecuna; e quartieri, come Hoograven e Khayelitsha. Ma per tutto questo tempo, abbiamo pensato e parlato della città, di ciò che l’urbanistica potrebbe significare ed essere nel Ventunesimo secolo. La rigida separazione tra formale e informale, pianificata e ad hoc, tra ricchezza e povertà, non aveva senso per noi. Queste distinzioni sono intrinsecamente instabili dal punto di vista politico, economico e geografico; l’emarginazione è un fenomeno sociale e fisico, una sorta di malattia che affligge il corpo civico. Lo scollamento tra formale e informale ha almeno due cause di fondo. Una è biologica: le città crescono verso l’esterno, come le increspature in uno stagno quando vi si getta un sasso nel mezzo. Come le increspature, così i quartieri circostanti, più sono lontani dal centro, più diventano deboli e non coerenti. L’altra causa segue la legge delle conseguenze involontarie: le infrastrutture, in particolare i trasporti, con l’obiettivo di migliorare la circolazione veicolare, creano barriere tra i ceti benestanti e quelli meno abbienti.
Questo lo si vede soprattutto nelle città più vecchie degli Stati Uniti, come New York e Chicago, ma anche nelle tangenziali di città come Roma, che impediscono la migrazione. Anche dove i trasporti pubblici e i ponti pedonali consentono l’accesso alle autostrade e ai viali a sei corsie, i quartieri sono ancora e comunque separati gli uni dagli altri, impedendo la commistione e la condivisione. Così come vediamo la verticalità come un modo per affrontare la necessità di avere più spazio residenziale nel barrio, crediamo anche che il fallimento della pianificazione urbana tradizionale risieda nella sua bidimensionalità, nella sua tendenza a pensare solo a un unico strato orizzontale. Nella migliore delle ipotesi, si trova una metropolitana sotterranea, collegata ma non intrecciata con il livello della strada. E se, anziché scavare nel sottosuolo, dovessimo costruire una nuova città sopra quella esistente? E se creassimo delle interconnessioni a più livelli, aumentando la densità e le relazioni? Naturalmente, questa è una visione utopica, e noi viviamo nel mondo reale. Ma l’utopia è come una produzione priva di difetti: devi comportarti come se fosse possibile, per poter compiere un qualsiasi progresso.
E allora ci chiediamo: se la città, come la conosciamo, non esistesse, cosa inventeremmo?