Un contributo di Veronica Proia, Carlotta Indiano, Andrea Costa e Caterina Di Fazio.
Tra il 29 gennaio e il 1 febbraio 2021, un gruppo di eurodeputati dem composto da Pietro Bartolo, Brando Benifei, Pierfrancesco Majorino e Alessandra Moretti, ha partecipato a una missione umanitaria in Bosnia Erzegovina, per testimoniare in maniera diretta la situazione in cui versano i migranti negli insediamenti informali formatisi al confine con la Croazia. L’evento online “Lungo larotta balcanica: prospettive dell’Unione Europea” promosso da Agora Europe per la serie “Otherside//Europe” e in collaborazione con Baobab Experience, ha voluto raccogliere le esperienzedei protagonisti della missione in una conversazione con Andrea Costa e Caterina Di Fazio.
Visitando alcuni luoghi-chiave dell’ultimo tratto della rotta balcanica, la delegazione ha posto l’accento sulla gestione fallimentare di una crisi migratoria che si consuma lungo i confini europei. Una crisi, come gli ospiti ci hanno tenuto a ricordare, divenuta emergenziale a causa della politica di esternalizzazione delle frontiere promossa dall’Unione Europea. Gli eurodeputati hanno visitato ilcentro governativo di accoglienza migranti e rifugiati di Lipa, passando per la foresta di Bojna, teatro di continui respingimenti illegali, i cosiddetti pushback, di migranti da parte della polizia croata.
Baobab Experience, che dal 2015 si occupa di supportare persone in transito, ha effettuato la sua prima missione in Bosnia nel novembre del 2019, per poi tornarci nei successivi due inverni.
L’associazione ha denunciato come degli 89 milioni destinati dall’UE all’OIM, l’organizzazione Internazionale per le migrazioni che gestisce i centri di accoglienza sul territorio, alla Bosnia vengano elargiti effettivamente solo i fondi per il controllo delle frontiere. Sebbene allestiti interritorio bosniaco, dunque, i campi diventano un non luogo al di fuori degli spazi abitati, utilizzati come arma di ricatto in un continuo rimbalzo di responsabilità. La Bosnia, che è in realtà un paese di transito proprio come l’Italia, differisce da questa per il fatto di risiedere ai confini dell’Unione Europea, e non al suo interno. Diventa così teatro del cosiddetto game, la caccia al migrante, nel quale la polizia di confine non solo respinge anche illegalmente i richiedenti intercettati lunga la rotta ma esercita sopra i corpi in transito violenze e soprusi.
Chi passa per la rotta balcanica teme il Mediterraneo. C’è chi dal Corno d’Africa preferisce attraversare il Mar Rosso e sbarcare in Arabia Saudita, percorrere a piedi migliaia di km attraversando i confini di Giordania, Libano e Turchia, restare bloccati due anni a Lesbo e poi intraprendere la rotta balcanica. In Bosnia si possono incontrare persone originarie del Maghreb e rifugiati libici, donne e uomini che ridisegnano percorsi impossibili per sopravvivere al viaggio.
La delegazione si è spinta da Zagabria fino alla foresta di Bojna, intenzionata a percorrere un tratto a piedi per attraversare il confine e raggiungere il campo di Lipa, nel cantone di Una-Sana. Secondo le dichiarazioni di Alessandra Moretti, è proprio in quel punto che sono stati bloccati dalla polizia croata e il loro passaggio è stato impedito. Come già denunciato dai report del Centro studi per la pace, lungo questi confini c’è un’intensa attività di respingimenti illegali, spesso attraverso un uso improprio della violenza anche nei confronti di bambini non accompagnati, in palese violazione delle norme internazionali. Anche l’attività delle organizzazioni umanitarie è altamente criminalizzata mentre si continua a denunciare l’assenza di soluzioni efficaci a livello emergenziale e strutturale.
La visita al campo di Lipa, dunque, ha permesso di far entrare fotografi e addetti stampa a cui prima non era consentito l’accesso. Come dichiara Benifei, però, nonostante l’importanza della sensibilizzazione sul tema, è chiaro che l’attuale situazione è frutto non tanto della cattiva volontà di un singolo paese, ma del sistema di cooperazione su cui si fondano gli stati membri.
Secondo quanto accaduto durante la missione, incontrare le persone all’interno del campo risulta estremamente complicato, altrettanto parlarci fuori dal campo. I controlli in ingresso e uscita sono severissimi e il timore di una fuga di informazioni o immagini che possano testimoniare le condizioni di vita degli ospiti viene celermente scongiurata. Una volta in Bosnia, però, gli eurodeputati sono riusciti a entrare a Lipa, una sorta di campo di concentramento, secondo le parole dell’eurodeputata Moretti. Una distesa isolata coperta di neve e circondata da filo spinato dove circa 9500 persone, uomini adulti per lo più, vivono stipati in 35/40 all’interno di tende senza areazione, scaldate da generatori molto deboli, di 70mq l’una. In tutto il campo ci sono 15 wc. 1100 sono i minori presenti,di cui 120 non accompagnati e in strutture con uomini soli, esposti quindi al pericolo di abusi e maltrattamenti. Nel campo sono anche presenti soggetti fragili, persone lese, feriti che necessitano di supporto e medicine. Alcuni di loro vivono nella foresta, in edifici abbandonati. Molti giovani si sono uniti per darsi sostegno e protezione reciproca contro le sistematiche vessazioni delle forze dell’ordine locali.
Un’ulteriore parte è costituita da persone che appartengono alla comunità LGBT+ e provengono da paesi dove l’omofobia oltre ad essere dilagante è anche estremamente pericolosa. Questi migranti subiscono infatti una doppia discriminazione, anche fisica, da parte del paese da cui scappano e a causa delle condizioni di convivenza forzata.
Di fronte alla costante e palese violazione di diritti umani, la delegazione non ha solamente voluto vedere con i propri occhi le condizioni dei migranti nei campi e nelle strutture ricettive a confine tra Bosnia e Croazia, ma ha voluto capire come vengano investiti i soldi che l’Europa stanzia per l’accoglienza.
Di ritorno dalla missione, dunque, l’eurodeputato Pietro Bartolo ha cominciato a lavorare a una proposta di modifica del Patto sull’immigrazione che la Commissione ha presentato a settembre 2020. Secondo la delegazione va radicalmente cambiata la ratio sottesa al patto, costruendo un tipo di accoglienza diffusa, fondata su un criterio di integrazione vera, su corridoi umanitari, e un sistema di quote che coinvolga tutti i paesi dell’Unione.
La gestione delle frontiere esterne dell’UE, infatti, dovrebbe essere una responsabilità condivisa da tutti gli Stati membri e dei paesi associati Schengen. È attualmente attuata dalla guardia di frontiera e costiera europea, ovvero le autorità di frontiera degli Stati membri e da Frontex. Secondo le nuove procedure per stabilire rapidamente lo status all’arrivo, però, l’UE dovrebbe colmare le lacune esistenti attraverso i controlli alle frontiere esterne.
Come dichiarato da Pierfrancesesco Majorino, il tema, però, non è semplicemente l’apertura. In Europa si ragiona come una grande fortezza assediata e si producono interventi di volta in volta disumanizzanti che ricalcano un modello in cui si delega la questione all’esterno dei confini. L’accoglienza e il riconoscimento di un diritto, però, sono responsabilità comune e non vanno visti come una mera concessione. Nel caso della rotta balcanica, il sostegno laddove le istituzioni esplicitano le loro carenze, dunque, dovrebbe articolarsi su due livelli: il livello dell’urgenza, pur continuando a non parlare di emergenza poiché si tratta di una situazione protratta nel tempo, e il livello strutturale, della creazione di canali legali di accesso. Fondamentale per l’eurodeputato, è la modifica di Frontex, rispetto cui è stato richiesto un radicale cambio di dirigenza.
L’auspicio è quello di riuscire a creare una sorta di protezione civile umanitaria che sappia far rientrare le conflittualità, che sappia mettersi nella condizione delle persone in movimento e che sia in grado di articolare missioni che facciano avvertire il peso delle istituzioni. Servono interventi intermedi fondati sullo stato di diritto, sul rispetto dei diritti umani e non sulla riproduzione della clandestinità, sulle valutazioni di chi ha i requisiti per ricevere protezione umanitaria. Un presidio che si articoli nei territori di confine, che faccia mediazione con le istituzioni locali, soprattutto qualora queste abbiamo l’impressione di non farcela.
La Bosnia è un mosaico di comunità transitanti ed è stata definita “la lacrima dei Balcani”. È evidente che la soluzione va ricercata nella libertà di movimento, nell’apertura delle frontiere nel rispetto, in primis, del principio dell’uguaglianza e dell’autodeterminazione dell’individuo.