All’indomani dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, della nuova cosiddetta “crisi di rifugiati” che attraversa il continente europeo e dello scoppio di una guerra pericolosamente vicina alle sue frontiere, l’Europa si trova nuovamente costretta a confrontarsi con le proprie capacità, nel fare fronte alla crisi, di rimanere fedele ai pilastri che sostengono la sua infrastruttura politica: la libertà di movimento e i diritti umani.
Come opportunamente nota Étienne Balibar, l’afflusso senza precedenti di rifugiati ucraini sul territorio dell’UE è paragonabile soltanto ai movimenti di popolazioni che sono seguiti allo scoppio della Seconda guerra mondiale. L’HCR stima che il conflitto abbia prodotto sinora 10 milioni di sfollati che si sono trovati obbligati a lasciare le loro case, di cui all’incirca 3 milioni, a oggi, fuggiti all’estero, verso la Polonia e la Romania, e poi verso ovest.
Si stima che, nel momento in cui scriviamo, 200.000 abbiano trovato rifugio in Germania, 50.000 in Italia e 20.000 in Francia. Se dobbiamo augurarci che la resistenza ucraina perduri, dobbiamo al contempo comprendere che le madri, i bambini, e tutti coloro i quali sono riusciti a fuggire dall’Ucraina per proteggersi, hanno bisogno del nostro supporto, in termini d’azione concreta e comune.
Se l’Ucraina continuerà a resistere, in milioni non potranno fare ritorno alle loro case in tempi brevi, e dovranno quindi trovare casa in Europa, sul territorio europeo, ed in esso, come scrive Balibar, sentirsi a casa.
Ciò richiede un allargamento dei confini territoriali europei, tanto geografici quanto culturali e umani. Se da un lato anche i partiti ed i politici di destra sono stati criticati per aver affermato la necessità dell’accoglienza dei rifugiati provenienti dall’Ucraina, se l’opinione pubblica appare compatta e disponibile all’aiuto concreto, se è vero anche che, come afferma Balibar, “l’allargamento demografico” dell’UE è già tutt’ora in atto per via dell’entrata sul territorio europeo di una frazione della popolazione ucraina in esilio, e se infine quindi possiamo già parlare di un allargamento dei suoi confini verso ovest, è pur vero, d’altro canto, che questo fenomeno di integrazione richiederà misure che vanno ben oltre la prospettiva limitata dello stato d’emergenza. Il momento storico attuale esige che vengano accelerate sul piano istituzionale le politiche di integrazione, che passano per il lavoro.
Il 24 febbraio 2022, il giorno dell’invasione, nel suo discorso che ha dato il via alla guerra in Ucraina, Putin ha chiesto al suo popolo e ai suoi alleati limitrofi di “andare avanti insieme, senza permettere a nessuno di interferire nei nostri affari e nelle nostre relazioni, ma sviluppandole in modo indipendente, in modo da creare condizioni favorevoli al superamento di tutti questi problemi e rafforzarci dall’interno come un unico insieme, nonostante l’esistenza di frontiere statali”. Il giorno successivo, sul New York Times, Emma Ashford aveva già previsto il pericolo più grande:
se le stime dell’ONU sono corrette, 5 milioni di rifugiati fuggiranno verso l’Europa occidentale, col rischio conseguente che il tema più dibattuto sul continente europeo, quello appunto delle migrazioni, creerà divergenze ancora più profonde, al punto di esacerbare il disaccordo tra le nazioni dell’UE.
L’impatto diretto di un flusso senza precedenti sulle politiche migratorie nazionali ed europee, se non si avanzerà in breve tempo in direzione di una politica migratoria e di integrazione concertata, lascerà milioni di rifugiati in un limbo legale e, quel che è peggio, inasprirà il conflitto tra gli stati europei, che dovrebbero, loro, rafforzarsi all’interno in un’unità politica e di intenti che oltrepassa l’esistenza delle frontiere statali.
L’inazione, ora, non è una scelta possibile. L’Europa ha dato prova, nel corso della sua storia più recente, di incapacità di azione e di mancanza di coraggio nell’assumersi la responsabilità politica di quello che sta avvenendo, ad esempio, nel Mediterraneo e sulla rotta atlantica, nonché, appunto, ai confini esterni dell’UE. L’allargamento demografico non può prescindere dall’allargamento delle frontiere territoriali, non però nel senso dell’esternalizzazione delle frontiere, la politica scellerata che l’Europa ha messo in atto fino ad oggi e che non ha prodotto che morti, ma nel senso della presa di responsabilità, politica e umana.
L’unità dei popoli europei, ora più che mai necessaria, e che esige l’inclusione di tutte le popolazioni in esilio presenti nello spazio politico europeo, non può prescindere dallo sviluppo di una politica migratoria e di integrazione unificata. Questo è l’unico passo possibile che ci attende, onde poter evitare i due rischi maggiori: la formazione di due blocchi contrapposti a livello globale, e la divisione della popolazione in due classi di umanità.
Sugli stessi confini esterni in cui i governi di svariati paesi, il gruppo di Visegrád, hanno eretto muri per impedire che le persone in movimento attraversassero le frontiere, per i rifugiati ucraini, bianchi ed in gran parte cristiani, sono ora stati aperti punti di passaggio e creati corridoi umanitari, mentre le persone provenienti da altre zone del mondo, non bianche e non cristiane, continuano ad essere respinte, di norma violentemente. Sugli stessi confini interni in cui i comuni e i cittadini si sono attivati per fornire aiuto e assistenza ai rifugiati provenienti dall’Ucraina, per le giovani donne, uomini e minori provenienti dal sud del mondo, e che spesso hanno attraversato l’Atlantico o il Mediterraneo, il transito continua ad essere costellato da rischi, talvolta mortali.
Le associazioni di aiuto ai migranti presenti sul territorio denunciano da anni la caccia ai migranti, spesso basata sul colore della pelle, l’accanimento delle forze dell’ordine e l’aumento del traffico di esseri umani.
Un modello che si sta traducendo, di fronte alla crisi attuale, in una “politica migratoria a due velocità”– cito qui l’associazione basca Etorkinekin, intervistata lo scorso 14 marzo da Sud Ouest, in seguito alla quarta morte per annegamento in pochi mesi nel fiume Bidasoa che disegna il confine atlantico fra la Francia e la Spagna.
In un momento storico che esige che si dia prova di solidarietà al popolo ucraino, l’Europa non può permettersi di perseguire una politica migratoria a due velocità. Se è vero, come sostiene Balibar, che questa guerra ritarderà ancora, in un momento in cui non c’è più tempo, l’impegno globale rispetto alla crisi climatica, allora l’attuale cosiddetta crisi di rifugiati non è che una goccia nell’oceano rispetto a quello che ci attende in merito al numero di rifugiati climatici che questa stessa crisi che continuiamo pericolosamente ad ignorare produrrà. Se è vero, infine, che la libertà di movimento e i diritti umani costituiscono le fondamenta dello spazio politico europeo, allora l’Europa non potrà più permettere che sulle sue frontiere, tanto interne quanto esterne – e ciò include quelle marittime – divenute oramai frontiere razziali, l’umanità si trovi divisa.