Università degli studi di Milano

Il 1 luglio 1960 l’ormai ex Somalia italiana diveniva indipendente, unendosi al Somaliland britannico. Qualche ora prima, nel tardo pomeriggio del 30 giugno 1960 la bandiera italiana era stata ammainata per l’ultima volta a Mogadiscio, sancendo la fine dell’AFIS (Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia), ultimo scampolo della vicenda coloniale italiana in Africa. Si era trattato di una cerimonia mesta, lontana dagli sguardi della popolazione, priva di qualsiasi solennità, come invece era avvenuto nel 1950, allorquando l’Italia repubblicana era subentrata al Regno Unito nel governo del paese e ad essere ammainata era stata l’Union Jack.

Questo episodio storico apparentemente insignificante è al contrario molto evocativo, poiché ci indica quale sia il vero rimosso coloniale: i colonizzati, al cui sguardo l’Italia si celò nel momento dell’addio.

Si è spesso sostenuto che il passato coloniale italiano sia stato sottoposto a un processo di rimozione, che non va però inteso come il benefico colpo di spugna che permette di lasciarsi alle spalle un’esperienza poco gratificante. La rimozione a cui è stato sottoposto il colonialismo italiano va declinata piuttosto nel significato freudiano del termine:

La rimozione non ha luogo mediante la formazione di una rappresentazione sovraintensa di contrasto, ma mediante l’intensificazione di una rappresentazione di frontiera, la quale d’ora in poi sostituisce nel decorso del pensiero il ricordo rimosso. Può dirsi una rappresentazione di frontiera perché da un lato appartiene all’Io cosciente e dall’altro forma un pezzo del ricordo traumatico.

La memoria coloniale, così come si è costruita nei decenni, secondo i canoni del vittimismo e della negazione delle responsabilità, può essere definita come una «rappresentazione di frontiera», conseguenza di un trauma. Qual è questo trauma? La dinamica che portò alla fine dell’impero italiano in Africa.

A differenza di buona parte delle potenze imperialiste, l’Italia non perse il suo Oltremare in seguito alla sollevazione delle popolazioni colonizzate, ma fu travolta dall’avanzata, nel Corno d’Africa e in Libia, delle truppe inglesi nel corso della Seconda guerra mondiale: a decretare la fine dell’impero coloniale italiano fu un’altra potenza imperialista.

L’ultimo fotogramma dell’impero italiano non era rappresentato dalle rivolte anticoloniali. La scenografia del crollo ricalcava pressoché fedelmente gli equilibri d’anteguerra: gli ascari al loro posto, i colonizzatori al comando, un’intera società soggiogata dalla violenza coloniale. Quest’immagine sarebbe rimasta impressa nella mente dei tanti italiani d’Africa che si sentirono certo sconfitti, perché battuti da una potenza europea, senza che il loro ruolo di dominatori fosse però messo in discussione. In fondo i sudditi coloniali erano rimasti al loro posto. È questo dato che permette alla retorica coloniale, ancor oggi fortissima, di insistere sul tema della felice convivenza tra colonizzati e colonizzatori.

Fanno invece parte dell’iconografia del crollo dell’impero coloniale il soldato italiano rinchiuso nei campi d’internamento inglesi, le donne e i bambini imbarcati sulle Navi bianche, gli ascari; manca la figura del colonizzato che si ribella. Un’assenza determinata dalle durissime repressioni ciclicamente scatenate nei territori coloniali, da fine ‘800 agli anni ‘30 del ‘900, che avevano gradualmente decapitato la leadership dei movimenti di resistenza in Eritrea, Etiopia, Somalia e Libia.

I popoli colonizzati dall’Italia subirono l’occupazione coloniale, così come (per certi versi) ne subirono la fine, o quanto meno la vissero da spettatori.

Sono questi elementi che permisero di impostare il dibattito presentando gli italiani come vittime, dimenticando che anche coloro che non parteciparono attivamente ai massacri, comunque godettero dei privilegi che la brutalità delle politiche coloniali offrirono (si pensi alle terre sottratte alle popolazioni).

La sconfitta per mano inglese fece sì che la rinuncia alle colonie fosse vissuta come una punizione venuta dall’esterno, e non come l’esito di un percorso sbagliato. L’Italia non visse il confronto con un movimento di indipendenza locale e soprattutto il momento della sconfitta per mano dei sudditi coloniali. Sono entrambi passaggi fondamentali perché permettono il superamento dell’idea dell’inferiorità dei colonizzati, della loro sostanziale passività e rassegnazione nell’accettare un destino avverso, ponendoli dalla parte dei vincitori. Questa marginalità dei colonizzati nel momento del tramonto dell’impero coloniale è in fondo la causa principale dell’idea della bonarietà del colonialismo italiano. Ciò spiega perché nella retorica italiana sull’impero è prevalsa l’immagine degli italiani come vittime. Vittime della superbia inglese, rinchiusi nei campi d’internamento inglesi, cacciati dagli inglesi; mentre le durezze dell’occupazione italiana sono rimaste (sfuocate) sullo sfondo.

La marginalità dei colonizzati nel momento del crollo ebbe un effetto nefasto soprattutto per le società delle ex colonie italiane, le quali furono private del momento catartico rappresentato dalla lotta di liberazione, che forse sarebbe stato in grado di placare la «vergogna involontaria che ingenera negli ex-colonizzati un’esperienza coloniale» (Calchi Novati).

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