Cosa hanno in comune Ken Loach, Isabella Allende e Uliano Lucas? Un regista (Loach), una scrittrice (Allende), un fotografo (Lucas). Sono tutti “grandi” nel loro mestiere e, per gli storici, la loro “grandezza” è racchiusa soprattutto nella capacità di raccontarci il passato con grande efficacia. Terra e libertà, un film del 1995 di Ken Loach, è anzi una sorta di piccolo manuale per chi si occupa del rapporto tra cinema e storia. Il racconto inizia con la morte di un vecchio operaio inglese, uno degli ultimi reduci della guerra di Spagna; la giovane nipote, in lacrime, trova tra le sue cose un fazzoletto rosso (che racchiude una manciata di terra) e una vecchia valigia zeppa di fotografie, lettere, ritagli di giornali.
Quelle poche tracce di un passato lontano, le consentono di ricostruire la biografia del nonno: nel 1936, comunista, disoccupato come tanti altri dopo la crisi del ‘29, aveva lasciato Liverpool per unirsi, in Spagna, alla lotta contro il fascismo; era entrato nelle Brigate internazionali e aveva combattuto sul fronte aragonese. Ferito, aveva trascorso la convalescenza a Barcellona, assistendo alle tragiche giornate del maggio 1937, quando i comunisti di stretta osservanza sovietica avevano sanguinosamente disciolto le milizie del POUM (Partido Obrero de Unificación Marxista) e arrestati più di 15 mila tra anarchici e trotzkisti, stroncando con la violenza qualsiasi “eresia” di sinistra.
Scandalizzato, il giovane inglese aveva lasciato il Partito comunista; ritornato al fronte, aveva vissuto un’intensa storia d’amore con una compagna di lotta, la partigiana Blanca; aveva condiviso i dubbi sulla politica di Stalin e dell’URSS e i dilemmi legati ai progetti di una nuova società completamente collettivizzata; era stato spettatore, disgustato e impotente, delle uccisioni dei miliziani non allineati alle direttive degli stalinisti e per questo prima disarmati, poi fucilati. Al funerale del nonno, alla fine, la ragazza stringe nel pugno chiuso il suo fazzoletto rosso, una piccola bandiera per simboleggiare l’ideale continuità di una lotta e di una speranza.
La scena iniziale è dunque una sorta di kit per la ricerca storica ed è come se Loach abbia allora voluto dirci almeno due cose: nel 1991 si era dissolta l’URSS, ma il progetto di un comunismo libertario era destinato a sopravvivere alla caduta del suo nemico implacabile, lo stalinismo; e quel progetto sopravviveva intatto come speranza per gli ultimi del mondo ma anche come conoscenza di un passato gravido di insegnamenti per il futuro.
Più che nella memoria, diceva Loach, è nella storia con le sue ricerche, i suoi archivi, i suoi documenti che si annida la possibilità di combattere lo spaesamento di oggi. La memoria si affievolisce negli anni, può tradirci con l’inganno dei nostri ricordi: è appesa al filo delle vicende che scandiscono la nostra vita e la modellano di conseguenza. La storia come metodo, disciplina fondata sulle argomentazioni e sulle prove documentarie che le sostengono, ha un suo fondamento che non è scalfito dagli impeti mutevoli della soggettività. Se si dice, per esempio, che il reggimento delle SS “Bozen”, decimato dall’attentato di via Rasella, a Roma, nel 1944 era composto da “musicisti pensionati”, lo si può fare ma bisogna provarlo, occorre almeno citare una fonte che legittimi quell’affermazione.
Certo, la storia non basta se non si è capaci di raccontarla. Nella costruzione del sapere storico diffuso è fondamentale un racconto che consenta al passato di transitare nel presente rendendolo conoscibile, accessibile anche a chi non lo ha vissuto. Il revisionismo che parla di “musicisti pensionati” si avvale di stereotipi e luoghi comuni inserendoli però in una narrazione seduttiva e accattivante che alla fine diventa dura come il granito ed è difficile da scalzare.
Ed ecco perché Loach, Allende, Lucas diventano indispensabili.
Sanno raccontare, seducendo con la realtà delle loro immagini e delle loro parole. La casa degli spiriti, il più noto tra i romanzi della Allende, ci restituisce l’atmosfera del golpe in Cile (1973) in tutta la sua drammaticità mostrandoci, allo stesso tempo, come una democrazia muoia quando è già morta nel cuore e nella testa del popolo che dovrebbe difenderla e amarla. In Cile andò così e i golpisti avevano vinto la loro battaglia già prima che gli aerei e i carri armati cominciassero a sparare.
Ma la Allende ci racconta anche di chi per quella democrazia decise di sacrificare la propria vita, di Salvador Allende – “il Presidente”-, e degli uomini della sua scorta, gli “eroi fragili e duri” che, l’11 settembre 1973, decisero di restare al fianco del loro Presidente nel palazzo della Moneda assediato per “difendere con durezza la fragilità democratica”.
1973. Salvador Allende tiene un comizio di fronte ai lavoratori
Gli scritti della Allende, le parole appena citate di Sepulveda, sono tra quelle che oggi ci consentono di conoscere storicamente il Cile del 1973. Così come sono gli scatti di Uliano Lucas a guidarci nella ricerca della mutazione antropologica che accompagnò gli italiani negli anni successivi al boom economico.
Di quel periodo, Lucas ha prodotto una documentazione preziosa, mettendo in evidenza aspetti che gli storici attraverso le loro fonti tradizionali non avrebbero mai potuto studiare, come, ad esempio, i volti e i corpi degli italiani e delle italiane, di colpo non più segnati dalla fatica e dal lavoro ma come scolpiti dal benessere e dai consumi, scavati dalla febbre della politica e della militanza. Allora, però, eravamo ancora lontani dall’egemonia televisiva e dall’avvento del digitale che oggi hanno confinato la fotografia in un limbo incapace di alimentare ogni tipo di “alterità”, senza più la forza di riproporre quello sguardo critico che ne aveva segnato le sue grandi stagioni. Ma per fortuna di noi storici le immagini di Lucas, come quelle di Loach, e le parole della Allende, restano. E ci aiutano.