“Qui ci manca tutto, ma non ci serve niente”. L’emblematica frase dipinta su un muro di Rebibbia, nella periferia di Roma, fotografa la sensazione di oblio di alcune comunità ritenute ai margini, così come percezione di distacco dalla sfera delle politiche pubbliche e sociali. L’insufficienza dei servizi di prossimità e la scarsa mobilità ascendente riguardano persino “fiori all’occhiello” come la città metropolitana di Milano, appena insignita del titolo di città più vivibile d’Italia nella classifica del Sole24Ore. I sette chilometri che separano corso Magenta da Quarto Oggiaro segnano, oltre che un crollo nei livelli di reddito, una caduta nel numero dei laureati: se il 51% degli abitanti in centro ha il diploma di laurea, il dato scende ad appena il 7,6% in periferia. In un paese di pochi centri e molte periferie, l’ascensore sociale sembra completamente guasto: secondo l’Oxfam, per chi nasce in famiglie a basso reddito potrebbero volerci fino a cinque generazioni per raggiungere il reddito medio. Questi dati fanno luce sul “peso” del contesto socio-economico e familiare nel determinare le condizioni di partenza e le opportunità di vita dei cittadini del nostro paese.
Negli ultimi anni, per far fronte alle insufficienze del welfare nel rispondere ai variegati bisogni della popolazione, molte comunità di periferia e soggetti sociali sono stati in grado di reagire, attrezzarsi, adottare strumenti e pratiche per ri-perimetrare la cittadinanza in senso più giusto e inclusivo. La letteratura accademica ha ampiamente descritto la valenza del welfare familistico e comunitario nel nostro paese, colmando i buchi neri nella protezione socio-assistenziale attraverso reti familiari o informali (Putnam et al, 1993; Ferrera, 1996; Naldini, 2004). A margine della crisi, diverse realtà hanno contribuito a ricostruire il tessuto di comunità sfibrate ed esauste, penalizzate dalle trasformazioni di un mercato del lavoro e di una società in rapido cambiamento. Come rilevato da Loris Caruso (Cantiere delle Idee), contrariamente alla narrazione dominante nel dibattito pubblico, abitanti e reti di periferia spesso condividono un “senso comune progressista”, auspicando un maggiore intervento dello stato e politiche redistributive ma anche la ricostruzione di forme di solidarietà collettiva e di appartenenza.
La “Grande Recessione” e le cicatrici sul sistema di welfare italiano
La crisi economico-finanziaria, poi tradottasi in crisi politica e sociale, ha messo a dura prova il sistema di welfare nel nostro paese, mordendo un’Italia profonda in cui i contorni tra centri e periferie sono sempre più sfumati. Come spiega Ilaria Madama, Professoressa dell’Università Statale di Milano, il recupero della crisi è stato lungo e limitato: guardando ai dati del 2018, il tasso di povertà severa supera l’11%, con valori sostanzialmente superiori rispetto ai livelli pre-crisi.
Figura 1. La povertà severa, raffronto Italia-eurozona, totale e per fasce d’età (2005-2018) i
Note: i soglia di povertà relativa fissata al 40% del reddito equivalente mediano.
Fonte: Ilaria Madama e Marcello Natili. Dati estratti da Eurostat online database.
La deprivazione materiale colpisce in maniera particolare alcuni gruppi della popolazione. I minori risultano particolarmente esposti, con più di un milione e 200mila bambini che vivono in condizione di povertà assoluta. In molti casi, le diverse forme di marginalità si sovrappongono: il rischio di deprivazione materiale aumenta se si hanno genitori con bassi livelli di istruzione (fino alla secondaria di primo grado). Nascere e crescere in famiglie povere limita sostanzialmente le chances di vita, aumentando le distanze tra i diversi gruppi e classi sociali.
Figura 2. La povertà assoluta in Italia per fasce d’età (%) (2005-2018) i
Fonte: Ilaria Madama e Marcello Natili (2019). Dati estratti da Eurostat online database.
Negli ultimi anni, le carenze del nostro paese nel redistribuire reddito e benessere sono emerse con maggiore chiarezza. Se il welfare mix “all’Italiana” è sempre stato caratterizzato da uno sbilanciamento verso i cosiddetti “insider” del mercato del lavoro (lavoratori con contratto a tempo indeterminato, full-time, in settori produttivi forti), la crisi ha rivelato l’incapacità del sistema nel rispondere a nuovi rischi e bisogni, come quelli della conciliazione vita-lavoro, la disoccupazione femminile, il fenomeno dei NEET, la povertà lavorativa e infantile. Come illustrato da Marcello Natili, dell’Università Statale di Milano, l’Italia spende comparativamente poco in misure destinate ai minori: solo lo 0.2% a fronte di una media europea dello 0.8%. Stesso vale per le misure di contrasto alla povertà abitativa, per cui sono allocati solo 9.6 euro per abitante contro i 272 della Francia e i 538 del Regno Unito.
La recente introduzione del Reddito di Cittadinanza costituisce un primo passo per colmare il ritardo dell’Italia nella lotta alla povertà, riportando i livelli di spesa nel cosiddetto “safety net” intorno alla media degli altri paesi UE. Tuttavia, la misura ha alcune zone d’ombra. Il primo aspetto problematico risiede nell’insufficienza di politiche attive del lavoro in corredo allo strumento, rendendola incapace di promuovere la piena indipendenza economica nel medio e lungo termine. Inoltre, il Reddito di Cittadinanza si caratterizza come una misura stigmatizzante: chi lo riceve è tenuto ad adempiere a condizioni umilianti e destinare i propri risparmi a spese ritenute “meritevoli”. Paola Gilardoni (Alleanza contro la Povertà Lombardia) rileva gravi deficit nella misura adottata, come ad esempio l’incapacità di intercettare gruppi vulnerabili come i migranti e di sostenere in maniera adeguata le famiglie numerose. Pur se sotto-finanziato, il REI (Reddito d’Inclusione) precedentemente in vigore coglieva la possibilità di orientare gli interventi sul territorio, creando una virtuosa cinghia di trasmissione tra il piano nazionale e l’amministrazione locale – aspetto mancante nell’architettura del Reddito di Cittadinanza.
Cosa pensano le periferie? Le disuguaglianze e il welfare di comunità
Le politiche sociali adottate a livello nazionale si ripercuotono in maniera ineguale sul territorio. I dati mostrano una forte eterogeneità tra le diverse regioni: le opportunità di mobilità sociale generazionale variano sostanzialmente da provincia a provincia, passando dal 22% a Milano ad appena il 6% a Palermo. In questo quadro di disparità, interventi poco sensibili alle esigenze del territorio rischiano di rivelarsi inefficaci se non addirittura controproducenti. Inoltre, ostacoli organizzativi ed effetti avversi all’interno delle misure potrebbero penalizzare alcune aree, comunità e gruppi sociali. Per Nicoletta Teodosi (European Anti-Poverty Network), i diversi livelli di governance fanno fatica a dialogare tra loro, dando vita a una serie di distorsioni. Il problema risiederebbe nello snodo tra stato, regione e livello locale: anche per le misure a cui sono allocate risorse adeguate, i dati indicano modalità di intervento poco flessibili e talvolta “maldestre”, incapaci di promuovere la partecipazione e l’inclusione sociale dal basso. Un approccio di tipo integrato tra le diverse politiche (lavorative, abitative, educative, sanitarie) è fondamentale per la promozione dell’inclusione sociale sul territorio.
Anche nel caso di interventi multi-settore e sensibili alle caratteristiche delle comunità di periferia, non è detto che questi si traducano in un miglioramento nella qualità della vita da parte degli abitanti. Secondo l’Ocse, la soddisfazione dei cittadini italiani negli ultimi dieci anni è crollata, rilevando il margine più ampio registrato tra i paesi ad alto reddito. Per Matteo Jessoula, Professore all’Università degli Studi di Milano, il divario nei livelli di benessere percepiti è preoccupante. Quel che dati i raccontano è che “c’è qualcosa nel tessuto economico-sociale e della rappresentanza che scricchiola robustamente”, meritando adeguata attenzione da parte dei policy-maker.
In prospettiva comparata, emergono nitidamente le difficoltà del nostro paese nella realizzazione del diritto all’abitare. L’Italia riporta un tasso di deprivazione abitativa molto più alto della media europea. Se il 4% degli edifici abitabili è di proprietà pubblica, il numero di sfratti è in continuo aumento: 70.000 nel 2014. Sul territorio, il ritardo del legislatore nella tutela del diritto alla casa ha avuto effetti drammatici. Dalla liberalizzazione degli affitti nel ’98 al decentramento regionale, le politiche pubbliche hanno contribuito a penalizzare i segmenti più poveri della popolazione: i nuclei monoreddito, le famiglie numerose e gli stranieri sono i gruppi più esposti a condizioni abitative precarie, nella forbice tra un costo dell’affitto sempre più alto e un potere d’acquisto sempre più basso in molte città.
Figura 3. La deprivazione abitativa grave in Italia e nell’Ue (2009-2018) i
Note: i il tasso di deprivazione abitativa severa misura la quota di popolazione che vive in abitazioni che sono considerate sovraffollate e che presentano anche almeno un altro elemento di disagio, come perdite dal tetto, assenza di bagno o doccia e di servizi igienici, una illuminazione inadeguata.
Fonte: Ilaria Madama e Marcello Natili (2019). Dati estratti da Eurostat online database.
Includere gli esclusi: le reti comunitarie e la sfida delle disuguaglianze crescenti
Negli anni successivi alla “Grande Recessione”, la crisi della rappresentanza e la sordità verso i bisogni crescenti della popolazione hanno creato un vuoto sui territori. I policy-maker si sono rivelati poco abili non soltanto nell’intercettare le esigenze dei più vulnerabili, ma anche nel costruire alleanze con soggetti e reti di solidarietà multi-attoriali. Secondo l’esperta Nicoletta Teodosi, “non è possibile immaginare uno sviluppo sostenibile senza il coinvolgimento di attori istituzionali, non-istituzionali e dei cittadini”. La conoscenza puntuale e quotidiana dei luoghi non può che venire dagli abitanti; bisogna conoscere il territorio per mettere in campo interventi che valorizzino ruoli diversi e attori competenti.
Nell’ottica di un ripensamento dal basso dell’intervento sociale e politico, diverse realtà della società civile hanno sviluppato iniziative finalizzate a resistere agli effetti dell’austerità e combattere le disuguaglianze. Come spiega Lorenzo Zamponi, queste esperienze hanno forme molto diverse, nascendo dall’incontro tra percorsi di volontariato, attivismo sociale, economia della solidarietà e servizi dal basso.
I percorsi di “azione sociale diretta” sono mirati al soddisfacimento di bisogni materiali emersi con la crisi – dice Lorenzo Bosi – e per questo ambiscono al cambiamento sociale tramite azioni collettive. In molti contesti, gli attori sono stati in grado di superare le fratture ideologiche mettendo in campo alleanze inedite e votate al pragmatismo, come quelle tra il mondo cattolico e la sfera dei movimenti sociali. Nella maggior parte dei casi, questi soggetti vedono le proprie azioni come sussidiarie: integrative ma non sostitutive al welfare pubblico.
Il peggioramento delle condizioni socio-economiche per grandi fette della popolazione ha stimolato anche il ripensamento di attori “mainstream”, come sindacati e associazioni di quartiere. Giuseppe Filippini riporta l’esperienza della Camera del Lavoro nel quadrilatero Giambellino-Lorenteggio: se nel passato il sindacato ricopriva un ruolo politico più ampio, oggi le sue funzioni sono orientate all’ambito socio-assistenziale e alle emergenze degli individui più vulnerabili. Nel quadrilatero si sovrappongono diverse forme di fragilità: il lavoro povero tende a sommarsi alla questione educativa, che vede la divaricazione precoce dei percorsi e la formazione di scuole “ghetto”. Per questo serve mettere in campo interventi multi-dimensionali, recuperare un ruolo di contrattazione con i soggetti pubblici, e creare nuove basi “di comunicazione” e “comunitarie”. Partendo dalla necessità di valorizzare le reti di comunità e le abilità dei soggetti che operano sul territorio, il Comune di Milano ha avviato il bando della Scuola dei Quartieri: si tratta di un ciclo di incontri aperti e di laboratori per apprendere le basi della progettazione e promuovere interventi a scopo sociale, economico e culturale. Con il bando si intende sostenere l’ideazione e la sperimentazione di nuove attività capaci di produrre un impatto positivo sulle aree di periferia.
Bibliografia
Ferrera, M. (1996). The “Southern model” of welfare in social Europe. Journal of European social policy, 6(1), 17-37.
Naldini, M. (2004). The family in the Mediterranean welfare states. Routledge.
Putnam, R. D., Leonardi, R., & Nanetti, R. Y. (1993). Making democracy work: Civic traditions in modern Italy. Princeton university press.