Università degli Studi di Bari

La lunga e felice storia dell’UnioneEuropea è stata caratterizzata per decenni dalla capacità di garantire a tutti i cittadini un crescente benessere; e quindi dal diffuso consenso per il progetto comune. Crescente benessere per tutti, legato all’indiscutibile effetto positivo dell’integrazione sullo sviluppo economico e, in misura minore ma non irrilevante, agli effetti delle politiche comunitarie. Legato ad una forte attenzione politica, a livello comunitario e all’interno degli stati membri, verso la riduzione delle disuguaglianze, fra paesi, regioni, luoghi, persone, come cemento della costruzione europea.

Ma dalla caduta del Muro di Berlino questo quadro è progressivamente cambiato. Alla radice di queste dinamiche non vi è una sola causa, ma l’azione interconnessa di molti fattori[1]. Di natura politica, come la crescente disattenzione nelle dinamiche di molti paesi europei al tema delle disuguaglianze fra le persone. Demografica, con la fine dell’aumento della popolazione del continente e il suo invecchiamento, e quindi con il ruolo molto maggiore giocato dalle migrazioni, interne ed esterne all’Unione. Economica, con la crescita della manifattura nelle economie emergenti e il suo impatto nel commercio internazionale. Tecnologiche, con la diffusione delle innovazioni a matrice digitale, e le conseguenti trasformazioni nella produzione di molti beni e servizi, e nella connessa domanda di lavoro, più polarizzata su professionalità ad alta e bassa qualifica. E, anche come combinazione degli ultimi fenomeni, la crescente riorganizzazione a scala internazionale di molte filiere produttive a cominciare da quella dell’auto, localizzando in paesi e regioni diverse fasi di lavorazione.

E a tutto questo vanno aggiunti due grandi eventi comunitari. Il primo, il grande allargamento ad Est, che si è rivelato molto più importante di quanto si potesse immaginare all’inizio del secolo. Sono entrati nell’Unione nuovi stati membri profondamente diversi dai vecchi, e che sono rimasti tali: tanto per le loro condizioni economiche, quanto per le forme di regolazione politica delle loro economie e delle loro società. La nuova Europa a 28 (e poi a 27) ha visto spostarsi significativamente il proprio baricentro geo-politico, e geo-economico, verso Nord-Est. Parallelamente, la risposta comunitaria alla grande crisi del 2008 si è incentrata su politiche di austerità per gli stati membri con i maggiori problemi di finanza pubblica, poco attente tanto alla crescita quanto all’inclusione sociale. Soprattutto negli anni Dieci, le economie del Sud Europa sono state caratterizzate da una caduta degli investimenti pubblici e privati e dalle politiche per l’inclusione sociale.

Questi sviluppi economici e tecnologici hanno prodotto un impatto molto asimmetrico sulle regioni europee. Hanno reso assai più difficile il rafforzamento dell’economia nelle regioni più deboli, a sviluppo più “tardivo”. Hanno colpito in misura più intensa alcune delle aree a più vecchia industrializzazione, specializzate in settori e fasi produttive più esposte alla concorrenza internazionale. Hanno favorito, accelerando la terziarizzazione dell’economia europea, molte delle sue aree urbane. L’effetto combinato di questi profondi cambiamenti ha prodotto un’Europa segnata più che in passato da forme di polarizzazione geo-economica e da crescenti disparità fra i suoi territori, a più scale; e quindi dall’incapacità di assicurare, come in passato, che alla crescita d’insieme dell’Unione facesse riscontro un miglioramento di tutte le sue regioni, e quindi di tutti i suoi cittadini. Disparità vi sono sempre state, e sempre vi saranno, ma il nuovo secolo ha visto, in molti ambiti, il loro accentuarsi. Ha accresciuto la loro percezione.

Nelle regioni in ritardo storico i cittadini vedono una ridotta possibilità di agganciare i processi di crescita continentali; in quelle già sviluppate ma in declino soffrono di una condizione in parte nuova di ripiegamento delle opportunità. In entrambi i casi sperimentano una “carenza di futuro”, registrano l’incapacità delle autorità locali, nazionali, europee di modificare la situazione, lamentano una carenza di attenzione rispetto ai cittadini dei luoghi più forti[2]. Esprimono questo disagio, questa disillusione, emigrando; ma anche, molto, con il voto. È difficile formulare interpretazioni valide per l’intero Continente, dato che sono assai diverse le condizioni nazionali. E tuttavia molte analisi mostrano che nell’ultimo quinquennio è cresciuta l’importanza dei luoghi di residenza come determinante dei comportamenti elettorali[3]. A partire dalle clamorose disparità territoriali nel voto del 2016 per la Brexit, con il Nord dell’Inghilterra compatto nel “punire” quell’Europa da essi ritenuta corresponsabile delle loro sorti, all’avanzata della destra francese nel Nord-Est (e alla protesta per molti versi “anti-urbana” dei gilet jeaunes) e di quella italiana nelle aree più lontane dalle città, fino al rilevante sostegno per la destra tedesca dei cittadini dei Lander orientali. I cittadini delle regioni “che non contano” sembrano rivolgere il loro consenso verso forze sovraniste ed identitarie, che appaiono più grado di proteggerli contro i grandi cambiamenti del XXI secolo.

Le crescenti e multiformi disparità territoriali fanno sì che, a differenza del passato, alla crescita del benessere europeo non corrisponda la crescita del benessere di tutti gli europei, o quantomeno della loro grande maggioranza; che il progetto comune non sembri in grado di essere il progetto per tutti gli europei.

Determina conseguentemente fenomeni di risentimento in fasce significative della cittadinanza, che in molti casi si sono tradotte in comportamenti di voto contrari all’integrazione. Appare velleitario contrastare queste derive politiche (l’effetto) senza correggere le disparità che ne sono una importante causa. Un grande tema per la politica europea.


[1] Una trattazione più estesa di questi fenomeni e delle conseguenze sulla localizzazione delle attività economiche in Europa è in G. Viesti, Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo, Laterza, Roma-Bari, 2021

[2] Si veda A. Rodriguez-Pose, The revenge of the places that don’t matter (and what to do about it), Cambridge Journal of Regions, Economy and Society, 11, 1, 2017. Sul caso italiano alcune considerazioni sono in G. Viesti, La vendetta delle regioni che non contano, Il Mulino, 3/2018

[3] Cfr. L. Dijkstra, H. Poelman, A. Rodriguez-Pose, The geography of EU Discontent, European Commission Regional and Urban Policy WP 12, 2018


Foto di Manuel Alvarez da Pixabay.

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