Università di Urbino Carlo Bo

22 ottobre 2017: è solo l’ultima data di una lunga stagione referendaria che suggerisce un vero e proprio revival della democrazia diretta. La vicinanza tra i due referendum celebrati nel lombardo-veneto e il voto in Catalogna di inizio mese ha alimentato la confusione tra consultazioni molto diverse tra loro. In primo luogo, per la questione sottoposta al giudizio dei cittadini: l’indipendenza, nel caso “spagnolo”; l’autonomia (almeno per ora) in quello “italiano”. In secondo luogo, sotto il profilo della legalità: se il voto in Lombardia e Veneto rispettava il procedimento stabilito dall’art. 116 della Costituzione italiana, il governo di Madrid ha utilizzato l’art. 155 della (violata) Costituzione spagnola per “limitare” (almeno momentaneamente) l’autonomia.

Questi referendum, così come altri tenutesi in passato, condividono però una questione di fondo: quella della statualità (e della sovranità). Non è la prima volta – dal Québec alla Scozia – che i cittadini di una “comunità locale”, dentro una più ampia comunità politica, vengono interrogati in merito alla possibilità  di chiedere maggiori prerogative per le istituzioni periferiche, rispetto allo stato centrale, o sulla possibilità di avviare una secessione. In modo speculare, il referendum è stato sovente utilizzato per ratificare la cessione “verso l’alto” di poteri in precedenza nelle mani dello stato nazionale, o per ricondurre tali poteri dentro i suoi confini: si pensi ai diversi referendum sull’adesione al progetto dell’Ue, sul suo avanzamento attraverso i Trattati, fino al recente voto sulla Brexit.

Ma lo Stato non è il solo pilastro della politica moderna ad essere scosso dal “ritorno” della democrazia diretta. Di fatto, è la stessa democrazia rappresentativa ad essere messa in discussione. Il referendum viene spesso indicato come strumento per rafforzare la democrazia, come correttivo ad alcune sue “derive”, oltre che come antidoto alla crescente insoddisfazione che la circonda: in quest’ottica, il referendum contribuirebbe a risvegliare un pubblico diventato audience (passiva);  costituirebbe, al contempo, un argine (popolare) alla crescente rilevanza dei “capi” di governo. Tuttavia, il sempre più frequente ricorso al referendum, che depotenzia il meccanismo della delega assegnando (direttamente) ai cittadini il ruolo di decisori, si inserisce in un più ampio, e sempre più accelerato, processo di “rimozione dei mediatori”. 

Il referendum, d’altra parte, non è solamente uno strumento nelle mani dei cittadini. È anche una risorsa a disposizione dei partiti, e soprattutto dei leader, che sempre più vi si affidano: per promuovere la loro “agenda” e, ancor prima, per promuovere se stessi: rinsaldando il proprio legame (diretto) con il popolo. Anche se va segnalato come, non di rado, l’uso plebiscitario del referendum si sia trasformato in boomerang per i promotori: quelli di David Cameron, nel già citato esempio della Brexit, e di Matteo Renzi, dopo il No al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, sono solo gli ultimi casi in ordine di tempo.

La diffusione della democrazia referendaria si configura, così, come uno dei tanti elementi di “tensione” con cui la democrazia rappresentativa è chiamata a convivere, in questa fase. Che porta con sé una lunga lista di dilemmi e potenziali contraddizioni. Il referendum “autonomista” della regione Veneto, ad esempio, stabiliva un quorum, abbondantemente superato. Il referendum lombardo, come quello catalano, si è fermato sotto la soglia (non richiesta) della maggioranza assoluta. Ma qual è il quantum di partecipazione sufficiente a considerare rappresentativi i risultati di una consultazione popolare? Ancor prima, chi (e come) dovrebbe prendere l’iniziativa di chiamare i cittadini, spesso poco interessati e poco informati, ad esprimersi? In quali circostanze, e su quali temi, la volontà (diretta) dei rappresentati dovrebbe essere vincolante per i rappresentanti che siedono all’interno delle istituzioni? Chi decide, poi, come formulare le domande e si occupa, eventualmente, di armonizzare le incoerenze prodotte dal risultato referendario?

Nulla di nuovo: sono solo alcuni fra i temi classici di un secolare dibattito sulla democrazia diretta. Tali quesiti non solo diventano più pressanti, nella fase attuale: assumono anche un diverso significato, alla luce delle nuove potenzialità offerte dallo sviluppo tecnologico. (Basti pensare ai ritardi e ai sospetti generati dal costosissimo esperimento delle Voting Machine, in Lombardia). Con l’effetto, solo apparentemente paradossale, che la democrazia diretta sembra “avere ancora bisogno” di mediatori,  se non addirittura di super-mediatori, chiamati a risolverne i dilemmi.

In modo speculare, proprio perché la democrazia rappresentativa sembra non poter “fare a meno” di significativi innesti di democrazia diretta, essa è chiamata a (ri)definire i suoi confini e le sue modalità di utilizzo: istituzionalizzando nuovi canali di ascolto dei cittadini e nuove procedure democratiche. Affinché la possibile cura al malessere della democrazia non finisca per aggravarne ulteriormente il quadro.

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