Ricercatrice Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Ciao ragazze, ciao ragazzi.

Domenica 25 settembre siamo tutti chiamati a partecipare al più importante rito civile democratico: le elezioni per la scelta della forza politica che dovrà guidare la nostra vita collettiva per i prossimi anni.

Per voi sarà la prima volta alle urne, e vorrei potervi dire solo cose belle. Vorrei potervi dire soltanto che, comunque vada, al di là dei risultati, l’atto antico di recarsi al seggio, porre il proprio segno sulla scheda e infilarla nell’urna varrà da solo la pena dello sforzo di uscire di casa o di accorciare la gita della domenica. Vorrei poter dire soltanto che votare è bello e importante, perché ci fa sentire cosa vuol dire vivere in una comunità democratica, che tutta insieme si esprime sul suo futuro, e si esprime sul futuro perché se ne interessa e se ne prende cura.

Invece, non si può non dire anche della fatica e il senso di spaesamento che dopo due anni di pandemia proviamo tutti, ma che ha segnato in particolare chi, come voi, due anni fa si era appena affacciato a una vita libera e autonoma; chi, come voi, ha visto di colpo il suo orizzonte di vita collettiva restringersi, il suo mondo di relazioni quotidiane disperdersi, e sfasarsi nella sua versione virtuale e social; chi, come voi, ha visto chiudersi strade, possibilità, opportunità che appena prima sembravano lì, a portata di mano.

Siamo tutti provati, ma sono in molti a sostenere che voi, ragazze, e voi, ragazzi, siete stati colpiti in modo particolarmente pesante dalle pur necessarie restrizioni, e forse ora siete più autorizzati di altri a non avere più nessuna fiducia nella vita collettiva e nei suoi riti di partecipazione attiva.

Per certi versi, la vostra situazione è totalmente nuova, nessuno è mai passato attraverso qualcosa di simile prima d’ora. E non parlo tanto della pandemia globale in sé – ce ne sono state diverse nella storia, che hanno falcidiato il mondo con violenza, e che hanno portato le persone a isolarsi anche per lunghi periodi –, quanto dei suoi risvolti sociali e psicologici.

Per la prima volta nella storia, infatti, lo sfilacciarsi dei contatti reali tra le persone ha avuto una sua compensazione virtuale. La pandemia ci ha fatto sperimentare un mondo dove tutta la vita collettiva si svolge attraverso le tecnologie informatiche e digitali: siamo stati isolati, ma mai veramente soli. Per due anni abbiamo sperimentato modi nuovi di entrare in rapporto con gli altri, di immaginare la collettività e di mettersi in gioco in una comunità. Ne siamo usciti tutti cambiati, ma questo cambiamento su chi è in una fase della vita ancora acerba di esperienze ha avuto un impatto più profondo.

Potrà forse sembrare un paradosso, ma proprio quando ci troviamo davanti a fenomeni che ci appaiono “senza storia”, diventa importante guardarsi indietro. La storia non serve a cercare ricette, risposte o soluzioni per il presente, ma ad avere piena consapevolezza dell’evoluzione delle cose. E di ciò che, in questa evoluzione, resta uguale più a lungo, o invece cambia velocemente. Ad avere uno sguardo profondo e un “punto di fuga” per aggiustare la prospettiva, quando ci rappresentiamo, nella nostra testa, il presente.

E allora guardiamoci indietro. E proviamo a pensare un attimo a cosa significa essere “maggiorenni”.

Ogni società umana fissa la sua asticella della “maggiorità” e della “maggiore età”, al di sotto della quale si è “minori”, più piccoli, più fragili e perciò presumibilmente incapaci di sopportare il peso delle scelte e delle responsabilità sociali che gravano sulle spalle dei “maggiori”. Anche questo rapporto tra “maggiori” e “minori” ha una storia. Prima di metà Ottocento, essere giovani voleva solo dire essere “minori” in attesa di diventare “maggiori”: i “grandi” dettavano le regole perché conoscevano il mondo, i giovani le imparavano e si adeguavano. Poi, a fine Ottocento, le grandi trasformazioni innescate dalla diffusione delle industrie e del capitalismo, sempre più rapide e sempre più estese sul globo, hanno per certi versi ribaltato i rapporti tra le generazioni: i “grandi” dettano le regole, ma il problema è che il gioco cambia vorticosamente, e i giovani hanno più capacità di adeguarsi ai cambiamenti, di cavalcarli, di indirizzarli. I giovani hanno continuato a stare alle regole del presente, ma hanno cominciato ad appropriarsi del futuro.

Questo processo si è consolidato e allargato nel corso del Novecento: i giovani sono diventati sempre più il centro simbolico dell’umanità, la sua parte veramente viva e attiva, i detentori del futuro. Questo ha voluto dire, da un lato, per i giovani (inizialmente maschi, ma a metà Novecento anche le ragazze sono diventate protagoniste di questo processo) rompere le catene della minorità, attivandosi per essere presenti sulla scena pubblica, portando le proprie idee, le proprie priorità, i propri temi all’attenzione dell’agenda politica dei “grandi”.

Nel bene e nel male: il fascismo ha portato nella vita politica del nostro Paese, insieme ai giovani reduci e alle loro rivendicazioni, la violenza delle trincee della Prima guerra mondiale, con conseguenze devastanti per la democrazia. Dopo vent’anni di dittatura, ci sono voluti i giovani della Resistenza (l’età media dei partigiani è meno di 25 anni), per tornare sul cammino della libertà e dei diritti. Venticinque anni più tardi, nel Sessantotto, le parole d’ordine del futuro – pace, eguaglianza, autodeterminazione, lotta alle discriminazioni – sono state dettate dagli studenti e dalle studentesse di tutto il mondo.

I giovani sono stati protagonisti di molti grandi movimenti collettivi nel corso del Novecento. Ma – rovescio della medaglia – proprio questo protagonismo li ha resi una posta in gioco fondamentale, un trofeo da conquistare e una forza da incanalare, di nuovo nel bene e nel male, da parte delle forze politiche in mano ai “grandi”. Nell’ultimo secolo e mezzo, non sono mai mancati gli adulti che invocavano morso e briglie per domare la “gioventù ribelle”, non disposta a farsi carico di un’idea di futuro che non era la sua.

Perché raccontare queste cose? Perché, credo, sia importante per le ragazze e i ragazzi di oggi, “vedere” i ragazzi e le ragazze del passato. Ci sono tante differenze, ovviamente, tante esperienze che le generazioni passate non si sognavano neppure, tra le quali l’essere “nativi digitali” è solo la più eclatante. Ma c’è una strada che li accomuna: quella della conquista di spazi di autonomia e di cittadinanza.

È guardandoci indietro che possiamo capire tre cose fondamentali, che possono essere utili a tutti, ma soprattutto a chi per la prima volta vive l’esperienza del voto.

La prima: al futuro bisogna pensare con attenzione, bisogna pensarci e dargli forma, con la consapevolezza che la strada dei diritti, della libertà e dell’autodeterminazione non è diritta né sicura, e che basta un attimo di distrazione per farsi fregare da chi, con la scusa di fare da guida, prepara morso e briglie, e impone un futuro che in realtà è già passato.

La seconda: il futuro è vostro, ragazze e ragazzi, non lasciatevelo scippare. La politica dei “grandi” non sempre è all’altezza della situazione, ma forse proprio per questo bisogna cercare di tenere il morale alto e non mollare il colpo, perché se è vero che il futuro riguarda tutti, riguarda soprattutto chi ne ha ancora tanto davanti a sé.

La terza: non esiste conquista di libertà e autodeterminazione che non sia collettiva. Oggi ci sono tanti modi per mettersi in contatto con gli altri, generare flussi di pensiero, concertare azioni; modi che permettono alle persone di fare comunità anche senza incontrarsi di persona. Usateli, sfruttate tutte le vie possibili per affermare il vostro futuro. Ma non dimenticatevi che per generare cambiamenti occorre vivere gli spazi, conoscerli, percorrerli con le proprie gambe, toccarli con le proprie mani, abitarli con la propria voce. E che andare a votare vuol dire presidiare uno spazio di cittadinanza fondamentale, testimoniare con la propria presenza il valore della democrazia.

Buon voto a tutt*,

Valentina Colombi

Fotografia: hay s
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