Come era accaduto per il nazismo, in tali contesti è facile si realizzi la profetica frase di Heine: “Là dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli uomini”. Vale a dire: la “cancellazione” non si accontenta di prendere a bersaglio le opere d’ingegno e di pensiero, bensì passa alla persecuzione fisica, più o meno estrema, di tutti coloro che l’ideologia imperante ha deciso di silenziare o cancellare.
È indispensabile tenerne conto per inquadrare ogni dinamica censoria e omologante che possa affacciarsi, invece, all’interno delle società democratiche: in primo luogo quella statunitense da cui proviene il termine “cancel-culture”. Termine, va detto, lanciato dalla destra con intenti denigratori verso le istanze contrapposte nel quadro di una “culture-war” dove quella stessa destra – molto conservatrice alla meglio e alla peggio suprematista – muove tutte le leve possibili per far prevalere la propria agenda.
Negli USA esistono Stati dove i riferimenti al passato schiavista, alle famiglie “non tradizionali” o all’aborto sono stati banditi già da prima che l’aborto stesso venisse vietato per legge in tutto il Sud ex confederato, realizzando così il salto di qualità dal bersaglio culturale all’azione contro le donne in carne e ossa.
In Italia abbiamo visto amministrazioni che, per dare l’altolà alla “teoria gender”, hanno proibito un libro classico per l’infanzia del 1959 (!), Piccolo blu e piccolo giallo di Lio Lionni, vietato corsi di educazione all’affettività, ostracizzato libri per ragazzi che parlassero di rifugiati, portato avanti campagne per eliminare il cous-cous o difendere la carne di maiale nelle mense delle scuole pubbliche. La “cultura della cancellazione” della destra agisce da tempo in questo paese mentre quella “woke” rappresenta una nozione veicolata dall’estero, oltretutto per tramite di notizie spesso decontestualizzate, distorte, cavalcate in modo allarmistico.
Penso dunque che, in realtà, non esista nessuna “cancel-culture” o ritengo che quanto venga criticato con questo termine sia condivisibile, tutto sommato? No, nient’affatto.
In linea di principio preferisco di gran lunga la lettura critica – anche dura, durissima – degli impliciti razzisti, antisemiti, sessisti, omo- e transfobici, abilisti presenti in molte opere – capolavori inclusi – alla loro messa al bando. Ma questa linea di principio ammette delle eccezioni. Non mi scandalizza, per esempio, che oggi, in Ucraina, non si abbia nessuna voglia di leggere opere che esaltano la superiorità della Russia rispetto ai popoli “inferiori”, neanche se sono di Dostoevskij o Solšenicyn. Inoltre, per quanto sia davvero un problema spinosissimo, ritengo cosa diversa “moderare” certi contenuti offensivi nelle forme espressive indirizzate a un’utenza di minori rispetto all’applicazione dello stesso metro e metodo dove quei destinatari non siano soltanto adulti ma destinati a diventare i rappresentati della cultura più avanzata, come avviene in ambito universitario.
Trovo la nozione di “safe space” sensata quando si tratta di stabilire le regole di convivenza sul campus, mentre la preoccupazione di rendere “safe” i contenuti dell’insegnamento presta, a mio giudizio, un servizio ambivalente proprio a quelle categorie e soggettività che si prefigge di tutelare. In breve, penso che conoscere bene – anche – la cultura che si è fatta veicolo di oppressione, criticarla, decostruirla, potersene perfino appropriare e ribaltarla sia un approccio assai più utile per scardinare tutti i suoi velenosi luoghi comuni. In ogni caso, tutte queste manifestazioni avvengono in un contesto dove il conflitto è alla base della possibilità di modificare dal basso le regole della convivenza sociale e civile, come accade soltanto nelle società democratiche, per quanto anch’esse siano soggette a tendenze autoritarie o di sfaldamento. In più, la “cancel culture” rappresenta nient’altro che la reazione per tutelare o, addirittura, rimuovere gli ostacoli al riconoscimento pienamente paritetico di diverse categorie discriminate e delle loro specificità anche culturali.
Poiché nasce allo scopo di includere e valorizzare chi è stato marginalizzato, trattato da inferiore e, spesso, anche soggetto a una violenza non solo secondaria da parte della cultura e del potere dominanti, occorre che la critica della “cancel-culture” proceda con grande discernimento del quadro complessivo. Per questo, accostarla alla realtà che vige nei regimi basati sull’esclusione e sulla persecuzione dei nemici designati, rappresenta una fuorviante banalizzazione capace, al contempo, di relativizzare la violenza liberticida di questi primi e di offuscare lo sguardo sui pericoli incombenti sulle democrazie liberali.