Università di Siena

Più che per la legge che porta il suo nome, Mario Scelba andrebbe ricordato per la gestione autoritaria ed energica che impose al Ministero dell’Interno negli anni compresi tra il 1947 e il 1962, periodo in cui lo diresse per ben tre volte, alternandosi con altri ministri. Nel corso di questi passaggi tenne una linea politica durissima nei confronti delle opposizioni di sinistra e verso le richieste provenienti da molte categorie di lavoratori. Durante il suo ministero la Pubblica sicurezza, come si chiamava allora l’attuale polizia di Stato, fu impiegata in maniera massiccia e violenta per reprimere le proteste sociali che agitavano il Paese, ricevendo in tal modo un imprinting autoritario che ne segnò a fondo l’organizzazione, la mentalità e le pratiche nel corso di tutta la storia repubblicana.

Prima dell’arrivo di Mario Scelba al Ministero, la polizia era stata interessata da un processo di epurazione del tutto inefficace. A una prima fase, caratterizzata da un lavoro diffuso e rapido della commissione preposta a stabilire le responsabilità di ufficiali e agenti coinvolti con il regime fascista e con la Repubblica sociale, era seguito un lungo periodo di stagnazione in cui la magistratura ordinaria, anch’essa compromessa con il regime, con una serie di sentenze aveva riammesso in servizio molti degli uomini epurati in precedenza. In tal modo, nel 1947, in netta continuità con il passato, risultavano ancora in servizio molti degli alti funzionari e ufficiali della Pubblica sicurezza in attività durante il fascismo, tra cui anche ex appartenenti all’OVRA e persino alcuni di quelli che avevano aderito alla Repubblica sociale italiana. Del resto, nel nuovo clima internazionale determinato dalla Guerra Fredda, la permanenza in servizio di uomini compromessi col passato regime, lungi dal costituire un pericolo, risultava utile in funzione anticomunista.

In questo contesto, Mario Scelba diede il via a un’epurazione di segno del tutto opposto, spingendo al licenziamento il personale di polizia proveniente dalle file della Resistenza che era stato arruolato al termine del conflitto. Diverse migliaia di ex partigiani furono costretti a lasciare il corpo con le buone, sfruttando le condizioni favorevoli create dal ministro per incentivare le dimissioni volontarie, oppure con le cattive, portati all’esasperazione da provvedimenti punitivi arbitrari, trasferimenti ingiustificati o vere e proprie provocazioni. Nel contempo, il personale proveniente dalla disciolta Polizia dell’Africa Italiana, il corpo di polizia coloniale fascista, venne immesso in ruolo nella Ps senza subire epurazioni di nessun tipo. L’allontanamento di gran parte del personale proveniente dalla Resistenza rientrava in pieno nel progetto democristiano, e in particolar modo scelbiano, di plasmare una polizia dalla mentalità uniforme, compatta e fedele al governo in carica. Uno strumento per reprimere con forza i fermenti sociali e politici che infiammavano la Penisola e da impiegare contro l’opposizione socialcomunista.

Come ministro dell’Interno Mario Scelba si distinse per il potenziamento e per l’utilizzo diffuso e massiccio dei reparti mobili e celere, unità di polizia concepite per la gestione e il controllo delle manifestazioni pubbliche e dei conflitti di lavoro. Nonostante non rappresentassero una sua creazione, durante la sua gestione divennero famigerati e raggiunsero quell’organizzazione capillare che li portò a poter intervenire in tempi brevissimi in tutto il territorio della penisola.

Alla fine degli anni Cinquanta esistevano infatti quattordici reparti mobili di circa cinquecento uomini l’uno e tre reparti celere, con un organico quasi doppio, strategicamente collocati in tutte le zone del Paese. Si trattava di unità rapide, dotate di un’ampia disponibilità di mezzi motorizzati, autocarri, autoblindo, camionette e jeep, che consentivano uno spostamento veloce; i tre reparti celere (Roma, Padova e Milano) si differenziavano per la maggiore dotazione di uomini e mezzi, che assicuravano un’efficiente capacità di proiezione sul territorio della penisola, così da intervenire anche in zone molto lontane. Oltre a elmetti e manganelli, l’armamento personale dei “celerini” prevedeva pistole, fucili e mitra. Nella concezione di alcuni alti ufficiali di polizia, queste unità furono immaginate come delle vere e proprie truppe corazzate, una sorta di “cavalleria motorizzata della polizia”, per usare le parole di Scelba, da lanciare contro manifestazioni, blocchi stradali e assembramenti. Non a caso i reparti divennero noti per i loro caroselli, una tecnica che consisteva nel caricare i manifestanti zigzagando a gran velocità con una colonna di jeep e camion, anche a rischio di investirne qualcuno, come talvolta accadde. Inoltre, nel corso degli interventi dei reparti fu frequente e massiccio il ricorso alle armi.

Le emergenze sociali del periodo postbellico furono gestite con il pugno di ferro per volontà del ministro Scelba e dei governi centristi, con un’impostazione da “guerra civile fredda”, come ha scritto Donatella della Porta. Nel solo periodo compreso tra il 1947 e il 1954, l’impiego diffuso e disinvolto di questo imponente apparato poliziesco produsse oltre cento morti tra braccianti, contadini e operai. Il più delle volte erano manifestanti inermi che avevano come unica colpa quella di aver chiesto alla neonata Repubblica di fornire risposte concrete, tangibili, che dessero sostanza alla nuova vita democratica del Paese.

Emblematico fu il caso della questione agraria, legata alla cronica fame di terra delle popolazioni rurali del Mezzogiorno (ma anche di alcune aree del nord), cui lo Stato mancò di dare una soluzione politica. Occupazioni di terre, manifestazioni e scioperi furono repressi in maniera dura, conflittuale, senza mediazioni, causando spesso morti e feriti tra i manifestanti. Uno degli episodi simbolo di questa ondata repressiva contro i lavoratori agricoli avvenne in quella che forse era la regione più povera d’Italia, la Calabria. Il 29 ottobre del 1949 i reparti mobili della Ps intervennero a Melissa, un comune non lontano da Crotone, per impedire l’occupazione delle terre incolte appartenenti al feudo di un latifondista locale. Di fronte alla resistenza dei contadini, la polizia aprì il fuoco uccidendo tre manifestanti, tutti colpiti alla schiena, e ferendone altri quindici. A Melissa seguirono altre sparatorie, in diverse località del sud e nel resto d’Italia: Torremaggiore, Montescaglioso, Modena, Seclì, Marghera, solo per fare alcuni esempi. A questa brutale repressione, si accompagnò un numero impressionante di arresti e fermi: poco meno di centocinquantamila nel solo periodo compreso tra il 1948 e il 1954. Il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, ereditato dal fascismo, si rivelò strumento legale prezioso per la repressione dei movimenti sociali messa in atto da Scelba.

Nel corso del suo passaggio al Ministero, Mario Scelba si rese dunque artefice di un modello di gestione dell’ordine pubblico estensivo, violento e conflittuale. Parallelamente garantì, complice la magistratura, l’impunità pressoché totale ai responsabili materiali delle violenze commesse contro i lavoratori.

Le modalità d’impiego dei reparti mobili sperimentate in quel periodo segnarono profondamente e per molti decenni le vicende sociali e politiche dell’Italia repubblicana, riproponendo ciclicamente, in risposta alle emergenze sociali più acute, la parte peggiore del repertorio scelbiano. Come il 2 dicembre 1968, ad Avola, quando la polizia aprì il fuoco sui braccianti in sciopero causando due morti e molti feriti. Lungi dal rimanere confinate alla gestione Scelba, determinate pratiche si radicarono nelle culture e nelle modalità operative della polizia e resistettero nel tempo, non soltanto nei reparti mobili ma nella mentalità diffusa dell’intera istituzione. Non vanno inoltre sottovalutati gli effetti deleteri di lungo periodo che certe modalità operative, e la conseguente abitudine all’impunità, ebbero sulla polizia, anche nei periodi in cui essa fu più recettiva alle richieste di rinnovamento provenienti dalla società.

Nel corso degli anni Settanta infatti nella Ps erano emerse delle fortissime richieste di cambiamento, che si erano concretizzate in un solido movimento democratico interno. Tuttavia, seppur consistenti e strutturate, determinate istanze democratiche non riuscirono a incidere la parte più profonda e più retriva dell’istituzione. Determinate mentalità, pratiche e schemi di impiego rimasero sotto traccia nell’istituzione anche dopo la riforma del 1981, in cui la Ps fu smilitarizzata, sindacalizzata e in gran parte trasformata nella nuova polizia di Stato. Nel luglio del 2001, a quasi dieci anni dalla scomparsa di Mario Scelba, nel corso della catastrofica gestione delle giornate di protesta contro il G8, per le strade di Genova si assistette a una sorta di drammatico revival, che per i livelli di astio, contrapposizione e brutalità mostrati dalla polizia sembrò riportare il paese indietro di cinquant’anni. Pur non potendo azzardare alcun parallelo con il passato scelbiano, troppo diversi sono i contesti e gli attori in campo, colpisce come a distanza di tanto tempo e al netto dei numerosi cambiamenti positivi della polizia, determinate modalità operative siano rimaste latenti nella stessa ossatura delle istituzioni, pronte a manifestarsi in maniera acuta nel corso delle emergenze.

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