Il Movimento 5 Stelle si appresta ad affrontare questa tornata elettorale in una vesta nuova, sia dal punto di organizzativo che dal punto di vista “ideologico” (per così dire).
Gli ultimi tre anni hanno visto cambiamenti rilevanti all’interno della struttura del M5S. Beppe Grillo, il fondatore-megafono del partito, si è fatto (solo formalmente) da parte per lasciare spazio a Di Maio. L’organizzazione si è rafforzata grazie all’introduzione di organi di rappresentanza intermedi, prima osteggiati fieramente dai pentastellati. Non è cambiata la centralità della piattaforma Rousseau (Davide Casaleggio) e di Beppe Grillo, ma gli indizi della normalizzazione negli anni si sono fatti sempre più evidenti: la nomina di Vito Crimi a reggente pro tempore a seguito delle dimissioni di Di Maio e le più recenti esternazioni di diversi parlamentari in merito alla convocazione di un “vero” congresso sono solo i segnali più recenti e tangibili di una eterogenesi dei fini della struttura grillina.
Infine, il cambiamento che mediaticamente ha segnato il passo riguarda due colonne portanti dei 5 Stelle. La prima concerne il famigerato mandato zero; cade per alcune figure elettive il vincolo dei due mandati che Beppe Grillo già prima della fondazione del M5S indicava come il limite massimo per un politico “non di professione”. Il capitale di esperienza accumulato a livello locale viene percepito per la prima volta come un plus e non come un demerito. Attenzione però a non interpretarla come una rivoluzione nata dal nulla. Il nuovo sistema delle primarie introdotto con le elezioni europee del 2019, il quale premia gli iscritti di lunga data, più attivi e coinvolti dentro il M5S, aveva già fornito un segnale importante ai più attenti osservatori.
La seconda riguarda il tema delle alleanze con le liste civiche e i partiti: anche qui si tratta di un tema su cui il M5S dibatte da oltre un anno. Prima con le votazioni interne sull’alleanza con le liste civiche, poi con la candidatura congiunta col centrosinistra in Umbria e più recentemente con il quesito sulle alleanze con i partiti tradizionali. Alla vigilia delle elezioni regionali questo tema è centrale per il partito.
Perché questa svolta, che potremmo definire storica? In primo luogo, sicuramente per le scarse performance elettorali nelle elezioni regionali del M5S. Prendendo i risultati delle più recenti elezioni regionali e confrontandoli con i voti raccolti alle elezioni nazionali in ogni regione, alcuni studi hanno mostrato una netta discrasia tra le due tornate. Nelle elezioni del 2013 e del 2018 il M5S ha raccolto sempre di più rispetto alle elezioni regionali. Da qui non solo il tentativo di radicare il partito a livello sub-nazionale, ma anche quello di frenare una preoccupante emorragia di voti. In secondo luogo, per ragioni squisitamente di tattica politica. In Francia siamo “abituati” a vedere dispiegato nel secondo turno delle elezioni presidenziali il cosiddetto cordone sanitario, ossia la confluenza dei voti verso il candidato alternativo alla destra radicale del Raggruppamento Nazionale della dinastia Le Pen. In Italia si è abbozzato un tentativo di trovare candidati alternativi alle destre, con la desistenza di altri candidati con meno appeal: il più concreto è stato quello fatto in Puglia, dove però non solo il M5S, ma anche Italia Viva non si è schierata con il candidato del centrosinistra Emiliano. Segno che le distanze ideologiche, che però spesso si confondono con i personalismi dei vari leader locali e nazionali, sono ancora più rilevanti di una potenziale vittoria del centrodestra. Il discorso vale per la Puglia come per la Toscana, dove i candidati di centrosinistra e centrodestra sono appaiati nei sondaggi.
Proprio riguardo all’ideologia, il M5S ha dato prova di grande flessibilità. Essendo un partito “senza radici” storico-politiche e avendo propagandando sin dalla sua fondazione l’equidistanza tanto dalla sinistra quanto dalla destra, questo non dovrebbe sorprendere. D’altronde tanto Grillo quanto Di Maio da sempre hanno sottolineato che il M5S non avrebbe avuto problemi (li ha avuti in realtà) a votare con partiti ideologicamente distanti, se avessero portato avanti le istanze presentate nel programma pentastellato.
Il cambio di alleanza dalla Lega al Partito Democratico non ha certificato l’incoerenza del M5S. Al contrario: piaccia o non piaccia questa è stata la sua linea politica sino ad oggi. Tuttavia, con il centrodestra sempre avanti nei sondaggi e con la possibilità, senza una legge elettorale proporzionale quasi “pura”, di avere la maggioranza assoluta dei seggi, il discorso potrebbe cambiare. E il riavvicinamento con il centrosinistra potrebbe diventare strutturale, se non durante la campagna elettorale, molto probabilmente nel dopo elezioni. Questo perché impedire a una coalizione o a un partito di avere la maggioranza, è essa stessa una vittoria come sanno bene i nostalgici della prima repubblica. E soprattutto perché poter avere la possibilità di esprimere ministri di rilievo ha un peso tanto per l’agenda pubblica quanto per lo spoil system e in termini di finanziamento al partito. A proposito di questo, la novità più grande a pochi giorni dalle elezioni è che la piattaforma Rousseau, su cui si è fondata l’idea di democrazia del M5S, vedrà ridotte le sue (tante) attività. Il motivo? Davide Casaleggio lo indica nel mancato versamento della quota mensile di alcuni parlamentari. Due considerazioni sul punto. La prima: la vittoria del Sì al referendum e il probabile calo (stando agli attuali sondaggi) della compagine del M5S in parlamento ridurranno il numero degli eletti (e i relativi stipendi) con cui finanziarsi. Oltre alla morosità dei parlamentari, quindi, dietro ci potrebbe essere un ridimensionamento dovuto al futuro calo strutturale delle entrate. La seconda considerazione è che la democrazia ha un costo. Qualsiasi aggettivo le si voglia accostare, i finanziamenti pubblici diretti o indiretti (vedi lo stipendio dei parlamentari) sono fondamentali per la sua sopravvivenza.
Il M5S arriva a queste elezioni non in buona salute; i sondaggi non sono confortanti e le divisioni interne sopite per anni stanno emergendo sempre più forti. Eppure, per quanto paradossale sia, il 21 settembre potrebbe aver portato a casa il suo più rilevante punto programmatico, facendo ridurre il numero dei parlamentari per via costituzionale. Che questo sia il canto del cigno del M5S è presto per dirlo. Di certo, una vittoria del Sì non sarà la panacea dei mali che affliggono il partito; non solo perché la cosiddetta anti-politica non traina più gli elettori come una volta, ma soprattutto perché mancano (formalmente) tre anni non facili dal punto di vista finanziario ed economico alla fine della legislatura.