Università di Torino

Molti giovani incontrati all’università ed educati da un certo senso comune considerano l’argomento della diversità culturale come privo di spessore scientifico. In altre parole, “l’immigrazione” sarebbe prettamente una questione politica e, come tale, tutti i pareri avrebbero uguale peso, con buona pace della scienza sociale. Una tale realtà è indicativa dell’assenza di discorsi pubblici sul tema e stimolati dalla ricerca sociale.

La questione sollevata da Anna Granata è complessa perché chiama in causa il modo in cui la ricerca possa sostenere il dibattito pubblico del riconoscimento dei diritti di chi appartiene, di fatto, ad una certa comunità, che però lo segnala come politicamente distinto a ragione di una “cultura diversa”. Tuttavia, chi nasce e viene socializzato in una determinata società non può che appartenere alla corrente principale, grazie alla socializzazione svolta dalle sue agenzie sociali ed educative. A meno che non lo si voglia rimandare alla sua piccola dimensione privata in maniera esclusiva e con sottintesi rimandi “biologizzanti”, in base al presupposto che la famiglia di origine sarebbe per definizione lontana dalla società accogliente. E così facendo, attuare un processo di creazione del diverso e della marginalità. Si potrebbe ricordare che l’appartenenza non è una questione di età, ma di sentimenti e di valori, e che perfino gli adulti possono coltivare nuovi sentimenti di appartenenza.

L’identità, che è sempre vissuta e rivendicata in prima persona dai soggetti stessi, è definita come “problematica” da alcuni osservatori esterni. Nemmeno gli accademici sfuggono al processo dell’assegnazione dell’identità, umanamente comprensibile, ma intellettualmente da analizzare e rivedere. Un esempio personale: vivo e lavoro in Italia da 25 anni, ma non di rado le mie origini rumene vengono richiamate, come quella volta che un collega europeo ha fatto riferimento, senza un motivo specifico, alla mia identità di ricercatrice e di “immigrata”. Avendo scorto nel mio volto un certo stupore, mi ha spiegato che dal suo punto di vista il concetto di “immigrato” ha una connotazione neutrale e “scientifica”.

Ben si sa, invece, che nel linguaggio quotidiano la parola “immigrato/a” viene riferita a soggetti (“etnici”), percepiti come più deboli e deprivati (ad esempio alcuni est europei, africani ecc.), mentre non include altre persone (dette “internazionali”), non deprivate per definizione nell’immaginario comune, i quali, più naturalmente, vivono all’estero: svizzeri o britannici, al di là della loro professione e dello status socio-economico, sono al massimo expat. La tentazione dell’assegnazione è forte in tutti, scienziati sociali inclusi!

 

In risposta alla posizione di Anna Granata, a mio avviso il punto della questione ha molto a che fare con i concetti veicolati. Le parole contano. Il modo in cui la scienza, e quella sociale in particolare, comunica i suoi esiti è quasi sempre altrettanto importante quanto la sostanza stessa. Il modo in cui la scienza si trasforma in sapere comune è un aspetto cruciale al fine di innovare la società o, al contrario, di tenerla ancorata a vecchie e nuove distinzioni.

Sappiamo che per tradizione la scienza tende a rimanere nella sua torre d’avorio. Per incidere sullo sviluppo economico e sociale, i ricercatori devono sempre più saper divulgare le proprie scoperte, esigenza accolta nella cosiddetta “terza missione” delle nostre università.

Concordo pertanto con l’idea di fondo. Le categorie scientifiche possono spesso diventare etichette controproducenti nell’ambito delle relazioni sociali:

i geografi usano i concetti di immigrazione e immigrati, i sociologi usano tipologie relative alla classe sociale, alle professioni o alle generazioni di immigrati, gli antropologi sono focalizzati perlopiù sulle differenze e sulle appartenenze etniche.

Tutto ciò è lecito e fa parte dell’apparato metodologico tipico delle varie discipline. Ciononostante, le categorie dovrebbero rimanere nel backstage della ricerca, e non alimentare nuove distinzioni nel quotidiano.

Il problema nasce quindi nel momento in cui la scienza sociale comunica i suoi esiti di ricerca per mezzo di queste stesse categorie, senza adattare il linguaggio alla funzione comunicativa. Come il malato rivendica la sua identità più ampia, l’immigrato o “lo straniero” potrebbe sentirsi stretto nell’etichetta che gli viene preconfezionata.

Le parole rappresentano una realtà, che anziché produrre conoscenza reciproca, diventa disaggregante.

Ciò che è lecito nel laboratorio scientifico non necessariamente comunica efficacemente al grande pubblico un messaggio di coesione sociale o di riconoscimento dell’umanità di ciascuno. In modo analogo, le statistiche che nel piccolo i docenti delle scuole realizzano per mezzo di etichette (quanti alunni disabili, quanti stranieri, quanti con genitori laureati) e che dovrebbero servire per meglio progettare percorsi educativi, oltrepassano il backstage professionale per essere veicolate liberamente, nelle interazioni quotidiane di senso comune tra insegnanti stessi, con esiti disumanizzanti.

Le etichette sono a tutti gli effetti profezie che si auto-avverano.

Allo stesso modo, i ricercatori stessi possono incentivare un vero e proprio effetto boomerang: una scienza sociale che non comunica bene i suoi esiti e che non considera gli effetti sociali perversi dei suoi apparati metodologici.

Si potrebbe anche argomentare che al di là della forma, c’è anche da considerare un aspetto di sostanza:

in che modo le tematiche affrontate hanno facilitato una presa di coscienza e culturale dello ius soli? A questo punto la questione diventa più complessa ancora.

Senza poter fornire risposte esaustive, si potrebbe pensare di evitare ogni forma di essenzialismo culturale e disciplinare, adottando maggiormente approcci trasversali, che possano sostenere al tempo stesso la fluidità delle identità: per esempio di genere, sociale, culturale. Un’agenda di ricerca avanzata potrebbe focalizzarsi maggiormente su dinamiche di riconoscimento e negazione dei diritti, su processi di emarginazione e segregazione, di coloro che sono considerati “culturalmente diversi” per origini etniche, o per altri motivi ancora. Non si tratta di negare la differenza specifica ed essere ciechi al colore delle differenze, ma di segnalare che si tratta di un problema di diritti e di riconoscimento spesso localizzato nella società mainstream. In altre parole, il “problema” dell’identità non è di chi non si allinea su un certo canone, come un’italianità immaginata, ma di quanti la ipotizzano nei suoi tratti essenziali.

Si potrebbe dire che l’invito di Anna Granata segue quella tradizione critica che parte da Edward Said (1978) e dalla sua denuncia di “orientalismo”, passa per la critica radicale di certi ambiti disciplinari e l’invito a chiudere quei dipartimenti, per arrivare all’idea di “differenza” che rischia di essere il prodotto aggiornato del razzismo secondo Taguieff (1994) e all’analoga convinzione di Appiah (2007), che vede nell’idea stessa di cultura uno dei prodotti più esportati degli ultimi decenni.


Foto di copertina di Sean Lee / Unsplash

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