di Enrica Asquer
Università degli Studi di Genova

Il volume che curai insieme a Paul Ginsborg nel 2011 (Berlusconismo. Analisi di un sistema di potere, Laterza) è stato uno dei primi lavori (non il primo, né fortunatamente l’ultimo) che aveva l’ambizione di fornire delle chiavi di lettura meno estemporanee ed evenemenziali della vicenda politica e culturale che, ruotando intorno alla figura di Silvio Berlusconi, non si esauriva in questa.

Il libro dichiarava sin dal sottotitolo la volontà di proporre un’analisi del berlusconismo, quindi di andare oltre il personaggio, indagando le radici del suo consenso e le matrici di una trasformazione politica e culturale di cui l’uomo politico era stato fautore e, insieme, emblema.

All’apice di quell’esperienza, quando i primi segni del suo scricchiolio venivano soprattutto – voglio dirlo con forza – dal movimento delle donne che aveva ripreso ad animare le piazze, era chiaro che si trattava di analizzare un oggetto scottante per degli storici e delle storiche: troppo presente, troppo divisivo, troppo poco intellettualmente alto. Ricordo con nitidezza la preoccupazione di Paul nel coinvolgermi nell’intero progetto che era, evidentemente, un progetto rischioso, che avrebbe implicato, per me più che per lui, un venire allo scoperto con un chiaro posizionamento pubblico. Si trattava di cercare un equilibrio faticoso tra le ragioni del distacco analitico e quelle dell’urgenza (ingenua? sbagliata? controproducente? oppure coraggiosa? intellettualmente onesta?) di dare un contributo al dibattito in qualità di intellettuali, di storiche e storici, là nel momento in cui quel dibattito divampava.

Il libro nasceva da un convegno, “Società e stato nell’era del berlusconismo“, promosso a Firenze nell’ottobre del 2010 dall’associazione Libertà e Giustizia, di cui era allora Presidente Sandra Bonsanti, e dalla rivista di storia contemporanea “Passato e Presente”, allora diretta da Gabriele Turi (storico dell’Università di Firenze), con la collaborazione di Carovana per la Costituzione, Comitato per la difesa della Costituzione Firenze, Giuristi democratici e Rete@Sinistra.

Tanti e tante di queste associazioni parteciparono alle riunioni organizzative preparatorie e diedero un contributo a quella che fu una grande manifestazione pubblica, nei locali dell’Università di Firenze, dove Paul insegnava, nella biblioteca delle Oblate, nel mitico cinema Odeon, gremito come non mai. Della rivista “Pep” furono presenti il direttore Gabriele Turi, Giovanni Gozzini e Gianpasquale Santomassimo. La lista dei relatori e delle relatrici fu lunga e l’indice del libro la restituisce, in parte. Perché, poi, come sempre, il libro fu una rielaborazione, un lavoro di curatela intenso e appassionante, di cui Paul e io ci incaricammo.

Due cose mi preme sottolineare, a distanza di anni, e a distanza da un libro imperfetto come tutti gli ibridi che tentano la difficile conciliazione tra registri e pubblici differenti.

Le matrici del berlusconismo, che venivano collocate in un contesto cronologico che precedeva evidentemente gli anni Novanta e affondava le sue radici negli anni Ottanta, erano queste: il patrimonialismo; il “populismo culturale“; la questione di genere; il rapporto opportunistico con la Chiesa cattolica e il suo nuovo interventismo culturale, di cui ancora oggi vediamo gli echi; la declinazione neoliberista del concetto di libertà, principalmente come “libertà da”; la costruzione di un blocco sociale e la difesa dei suoi interessi particolari, con la rinuncia a rappresentare, mediare, bisogni e interessi di tutta la cittadinanza.

Il “populismo culturale”, che è il tema che tentai di sviluppare attraverso un’analisi sistematica della rivista “Chi”, è forse quanto di più importante rimane in eredità sul piano dell’immaginario: è stata una grande narrazione capace di trasfigurare il tema della disuguaglianza, sociale e di genere, che attanagliava e attanaglia tuttora (per motivi anche diversi) il Paese, rendendolo un tema politicamente e culturalmente tabù, e sostituendolo appunto con la storia eroica dell’abbattimento delle differenze strutturali attraverso la forza di volontà dell’individuo. Questa narrazione colmava il vuoto lasciato dalla parabola discendente della sinistra comunista, colmava una voragine che si era riaperta con il “secondo miracolo“, in un Paese che non aveva concepito le riforme strutturali.

La questione di genere è poi centrale.

Tuttora constato che resta assente dal campo d’analisi e che spesso, anche ai migliori, manca l’attrezzatura teorica per maneggiare questo tema, finendo quindi per non nominarlo, lasciarlo nel silenzio, oppure ridicolizzarlo e di nuovo dire che “sarebbe riduttivo” ridurre il berlusconismo a una semplice esposizione di corpi nudi femminili in tv.

Ebbene, è evidente che si tratta di molto di più, ma non perché esporre corpi nudi di donne in TV sia e sia stato privo di rilievo politico. Del resto, la storia del discorso sulla Nazione, il suo carattere fortemente sessuato, sin dalle sue origini ottocentesche, che la storiografia ben conosce da lavori ormai classici (George Mosse, Alberto Banti, per citare solo alcuni autori), ci sollecita ad analizzare in prospettiva i corpi di donne e il loro ruolo centrale nell’autorappresentazione di una comunità politica nazionale.

Lunedì sera (12 giugno) una Porta a porta tutta al maschile ci ha ricordato icasticamente l’eredità di quei tempi. Le donne non c’erano, non hanno avuto voce, tuttora si considera non abbiano niente da dire quando si parla di politica. Eppure, allora, la voce se la presero, le donne se la presero eccome ed è davvero bizzarro oggi non ricordare che un movimento delle donne rinato fu parte centrale di quel processo che contribuì a dire “il re è nudo“. E poi si disse: noi donne non siamo tutte a disposizione. L’incantesimo si ruppe lì. E scricchiolò assai quando si cominciò a dire che no, la famiglia non è quella “tradizionale”, la famiglia può avere forme diverse. E però nell’incapacità di nominare questo tema da parte degli analisti c’è tanto, c’è tantissimo, c’è tutta l’eredità pesante del passato e tutta la strada che ancora resta da fare.

E poi c’è un altro pezzo. Perché chi in questi giorni ha annunciato il lutto nazionale, è un “Presidente del Consiglio”, che si chiama Giorgia Meloni, “ministro della gioventù” nel governo Berlusconi IV, “il più giovane ministro della storia della Repubblica” e oggi la prima donna a ricoprire la carica di Presidente del Consiglio. E poi ci sono figure di leader femminili di tutto rispetto, la ministra Carfagna, Gelmini, per citare le più autorevoli.

In realtà, il “bunga bunga” e l’abbattimento dei confini tra sfera istituzionale e rapporti privati, l’utilizzo abusivo di relazioni patron-client, l’assenza di voce così dominante nella rappresentazione televisiva e pubblica da una parte, e le leadership femminili che solo a destra vediamo con cotanta forza, dall’altra, sono due facce della stessa medaglia e non già, lungi da me pensarlo e sarebbe igiene del pensiero smettere di pensarlo, perché la loro carriera sia stata favorita dalla loro disponibilità ai favori del Capo.

C’è stato anche questo lì in mezzo ma non solo. La traiettoria eccezionale di queste donne, capacissime e determinate, e la capacità di reclutarle che il mondo politico berlusconiano ha precocemente dimostrato, sta concettualmente insieme allo smantellamento sistematico dell’analisi gendered della società, è perfettamente funzionale a legittimarla, a dimostrare che non serve, e a mantenere intatto un sistema in cui la disuguaglianza resta tratto dominante. Ma diventa un tabù. Non è un caso che il berlusconismo prima e la leadership di Giorgia Meloni poi abbia animato significative discussioni all’interno di un variegato movimento delle donne, senza che le sinistre fossero in grado di raccogliere compiutamente.

Abbiamo ripreso a parlare di corpi e di potere, abbiamo parlato di leadership femminili, abbiamo parlato di linguaggio e molto altro.

E peraltro nel frattempo il movimento delle donne ha mutato faccia. Da “Se non ora quando” degli anni Dieci del Duemila a “Non una di meno” è passata davvero tanta acqua sotto i ponti. Ci sono state lacerazioni e rimesse a punto. C’è stato di nuovo il rischio del “donnismo”, dell’unità essenzialista. E si è scongiurato, le giovanissime lo hanno scongiurato, perché tutto si è rideclinato in alleanza con i movimenti LGBTQ+ e con l’intersezionalità che oggi è una prospettiva cui le giovani non rinunciano. Le lacerazioni restano però, perché abbiamo un “femminismo radicale” anche in Italia e di questo, non del resto, abbiamo rappresentanza nel governo attuale. Quindi è chiaro che i nodi sono tutti sul piatto. In forme diverse, perché in realtà appunto non credo che questi movimenti si siano prodotti invano. Ma è chiaro che il rischio che il genere diventi un brand è altissimo, come è alto il rischio che continui ad essere rigettato perché rivelatore e fortemente conflittuale. La narrazione berlusconiana per anni era riuscita a depotenziare questa conflittualità, narrando ascese fulminee (e mettendo in sordina le rovinose cadute), esaltando capacità imprenditoriali maschili e femminili, accecando le consapevolezze del riprodursi continuo dei meccanismi di disuguaglianza. Ma soprattutto la narrazione berlusconiana aveva raccontato un maschile potente, imperituro, immortale, irresistibile. Sino a prova contraria.

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