Di seguito un’intervista ad Aboubakar Soumahoro sociologo e sindacalista del Coordinamento dei lavoratori agricoli USB a cura di Sara Troglio, ricercatrice di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
ST – La convergenza di singoli e gruppi – considerati come marginali dalla politica – verso forme di impegno sociale e di attivismo politico ha rappresentato, anche nel nostro passato prossimo, una delle strade più efficaci per l’inclusione di questi nella collettività e nella cittadinanza. Il soggetto che lotta è un soggetto che, di fatto, spezza la subalternità e gli stereotipi, costruendo attivamente la sua posizione sociale e la rappresentazione di sé. Ad oggi, quanto pesano le lotte – lavorative, sindacali – nella definizione di un nuovo protagonismo e di un nuovo attivismo sociale?
AS – Le lotte sindacali e sociali sono indispensabili, in particolare partendo dal contesto attuale di crisi e repressione sistematica delle lotte, quando sono espressione di processi che vedono il protagonismo dei diretti interessati. Quanto più i soggetti di una lotta diventano consapevoli dei propri diritti, quanto più si connettono i diritti sindacali e i diritti sociali, tanto più cresce il peso delle questioni sindacali nel conflitto.
ST – Possono ancora rappresentare un modello di “inclusione” – per esempio per i lavoratori stranieri – attraverso cui divenire pienamente cittadini?
AS – I lavoratori sono lavoratori tout court. Però è chiaro che le lotte sindacali, là dove coinvolgono lavoratori e lavoratrici definiti “stranieri”, possono essere l’occasione di lotte per diritti generali e non di solo di un mero segmento lavorativo. L’unica inclusione possibile è quella che non è frutto di concessioni caritatevoli, ma nasce dal protagonismo e dalla lotta dei soggetti esclusi.
ST – Chi è oggi, nella società italiana, l’escluso, l’invisibile, il marginale? Questa marginalità in che contesto e in che luoghi si attua (politica, lavoro, città)?
AS – Gli esclusi e gli invisibili sono i dannati della globalizzazione. Sono anche le donne che continuano a subire forme di esclusione e di sfruttamento tanto quanto i migranti. Una marginalità che si manifesta nelle varie articolazioni della nostra comunità sia nella dimensione sociale, culturale che lavorativa.
ST – I cambiamenti del mondo del lavoro e del sistema produttivo a cui stiamo assistendo hanno spesso fatto parlare gli osservatori di “crisi dei corpi intermedi ”e“ del sindacato”. Qual è lo stato di salute della rappresentanza sindacale?
AS – Non parlerei di crisi del sindacato, ma di crisi di un certo modo di praticare e rappresentare gli interessi sindacali e sociali di uomini e donne che faticano a soddisfare i propri bisogni vitali. Quindi penso che ci sia bisogno dello strumento sindacale. Un sindacato capace di coniugare indipendenza e ricerca di convergenze è più che mai necessario.
ST – In questo scenario, le strada di sindacato e lavoratori sembrano destinate a dividersi: quale futuro spetta al sindacato?
AS – Non credo, perché non c’è sindacato senza lavoratori e lavoratrici direi. Però casomai il rischio di una divisione tra una certa burocratizzazione di fare sindacato e lavoratori. Però si tratta di situazioni che vanno circoscritte e non da generalizzare. Oggi c’è assoluto bisogno dello strumento sindacale, perché è necessario avere una capacità organizzativa che sia all’altezza delle sfide che dobbiamo affrontare.
ST – E quale futuro per i lavoratori?
AS – Il futuro per i lavoratori è da leggere in un presente fatto di atomizzazione e costante abbrutimento dei lavoratori. Parlerei di un futuro che sarà caratterizzato da maggior attacco a diritti e dignità dei lavoratori e delle lavoratrici. Perché parliamo dell’era della digitalizzazione e di un datore di lavoro sempre più transazionale e globale.
ST – Su quali anticorpi possiamo oggi investire per rafforzare il nostro impegno per una società più aperta e solidale?
AS – Ci tocca partire dalla cultura e dalla sua valorizzazione, dobbiamo saper “restare umani”. Quindi bisogna partire dalla persona nel rispetto della sua dignità e delle sue libertà in una prospettiva di giustizia sociale per l’intera società.
ST – Qual è il rapporto fra filiera agroalimentare italiana e sfruttamento del lavoro regolare e nero? Quanto sfruttamento c’è dietro ad uno dei settori più al centro della narrazione sul Made In Italy?
AS – Basta girare nelle nostre aree rurali e le sue campagne, vedere le condizioni di sfruttamento di migliaia di lavoratrici e lavoratori per interrogarsi sui prezzi che troviamo sui banchi dei supermercati. Voglio dire che il rapporto fra filiera agroalimentare italiana e sfruttamento del lavoro regolare, sommerso o “grigio” è caratterizzato da forme di privazione dei più elementari diritti salariali, previdenziali, sindacali e sociali. Spesso tutto questo è volutamente trascurato nella narrazione sul Made In Italy, perché bisognerebbe ammettere che ci sono persone che lavorano 12 ore al giorno, per due euro all’ora, mentre dall’altra parte cresce sempre più il fatturato delle imprese della grande distribuzione organizzata.
Aboubakar Soumahoro, manifestazione braccianti agricoli, Foggia, 2018