Chi si avvicina allo studio del passato attraverso la lettura dei classici non può fare a meno di notare che l’esperienza del conflitto è presente sin dall’inizio come filo conduttore del racconto. Si ha quasi l’impressione che per gli antichi fosse impossibile raccontarsi senza afferrare e riavvolgere il filo che collega le guerre del presente a quelle del passato.
Nell’Iliade – il “poema della forza” secondo Simon Weil – la civiltà greca emerge dalla nebbia che ne avvolge le origini. Ogni episodio della guerra di Troia viene in risalto, esposto alla luce, come un passaggio di un processo di disvelamento: combattendo, gli eroi acquistano concretezza, si sottraggono all’indistinta orda dei predoni primordiali, per assumere i caratteri, le personalità, degli uomini che si affrontano – ma allo stesso tempo dialogano – nell’assemblea dei guerrieri. Raccontare la guerra costringe il poeta a mettere a fuoco ciò che conta, le cose per cui ci si batte, ma anche quelle a cui si è disposti a rinunciare. Anche quando si passa dall’epica alla storia nel senso proprio, con Erodoto e Tucidide, la guerra rimane centrale. Anzi, essa è persino presente come “caso paradigmatico”, utilizzato per illustrare la vocazione dello storico, inteso come colui che si interroga sulle “cause” degli eventi, che cerca di spiegarli.
Nella modernità è questo il paradigma che si impone. La storia come studio rigoroso del passato, indagine sulle cause, spiegazione della stasi e del cambiamento. Lo spirito “scientifico” di Tucidide riecheggia ancora nelle osservazioni di Bayle. L’indagine sulle cause sarebbe tuttavia incompleta se non prendesse in considerazione tutti gli attori che si muovono sulla scena. La storia degli eroi, che in età moderna è diventata quella dei condottieri, cede poco a poco il passo a quella della gente comune, degli oppressi, dei vinti, dei subalterni. Questa rinuncia a una prospettiva privilegiata non produce necessariamente una storia più oggettiva. Al contrario, alla moltiplicazione dei punti di vista si accompagna spesso la pretesa di una pluralità delle verità che non ammette sintesi. Non sorprende dunque che l’oggettività si vada a cercare altrove. In una storia senza soggetti. Dove al centro sono le quantità, i dati del mondo e della civiltà materiale, e il modo in cui essi condizionano la possibilità dell’azione. Che appare in questa visione da “nessun luogo” – come direbbe Thomas Nagel – meno libera, perché più condizionata dall’accumulo di una moltitudine di micro-cause di cui si assume la calcolabilità, se non di fatto, almeno in linea di principio metodologico.
Che fine fa la guerra in questa prospettiva? Non sparisce certo, ma diviene quasi indistinguibile da altri grandi fattori di cambiamento: le carestie, le pestilenze, le migrazioni. Quantità che aumentano o diminuiscono a opera di diverse “forze vaste e impersonali”. Se ci sono buone ragioni per difendere un approccio alla storia che sia meno condizionato dalla prospettiva personale, che sia più sequenza di eventi e meno rappresentazione, rimane il dubbio che un approccio che aspiri a uno sguardo da “nessun luogo” finisca per dissipare il valore della storia come parte dell’educazione civile di un popolo. Un effetto particolarmente deleterio in una democrazia.
Anche se c’è un elemento di creatività nella storia personale, che trova nel racconto del conflitto le sue origini più remote, come abbiamo detto, questo non deve essere disprezzato. Ciò che siamo è inevitabilmente plasmato dal modo in cui raccontiamo la nostra vita, e quindi dalle cose cui ci siamo opposti o da quelle che abbiamo scelto di difendere. Non è dunque mai privo di interesse il modo in cui le guerre vengono trattate dagli storici. Perché è attraverso il discorso storico che prende corpo l’identità – quella individuale come quella collettiva – e trovano alimento le risorse motivazionali che sostengono o portano alla disgregazione i regimi politici.
Ecco perché, di fronte alla guerra, è essenziale tornare alla storia nel senso più tradizionale, non solo quantitativo, ma anche qualitativo. Solo la storia può aiutarci capire chi potremmo essere, attraverso la comprensione di ciò che possiamo fare in un determinato contesto. Quali sono le risorse materiali e ideali cui possiamo fare appello. Quante, e quanto significative, sono le opzioni che abbiamo a disposizione, sia come persone sia come cittadini.