Qui userò il termine “Sessantotto” per fare riferimento a un ampio spettro di mutamenti che sono spesso considerati come caratteristici dell’intero decennio degli anni Sessanta.
Alla metà degli anni Sessanta si assistette a un improvviso riaccendersi del conflitto industriale quasi in ogni parte dell’Europa occidentale. Solo pochi anni prima, alcuni osservatori avevano liquidato la capacità degli scioperi di provocare disordini sociali e politici in un periodo che molti erano convinti che fosse quello della “fine delle ideologie”. Questa crescita improvvisa e prolungata nel numero, nella portata e nella durata degli scioperi e di altre forme di conflitti nel mondo del lavoro era in gran parte indipendente dall’ondata di rivolte studentesche che si stava verificando nello stesso periodo. In molti casi, però, i due movimenti sondarono la possibilità di un legame tra di loro, così come con varie altre ondate improvvise di proteste, ad esempio quelle riguardanti il diritto alla casa e la riqualificazione urbanistica.
Come spesso è accaduto nella storia moderna, negli Stati Uniti il conflitto industriale e di classe cedette il posto a quello legato al problema razziale. La fine formale della segregazione e della negazione dei diritti civili agli afroamericani negli stati meridionali risale ai primi anni Sessanta, in seguito a grandi mobilitazioni di protesta che divennero un prototipo e un modello per i conflitti del resto del decennio. Molti dei principali protagonisti delle rivolte nei campus americani avevano partecipato anche al movimento per i diritti civili dei neri e a campagne collegate a favore di gruppi come i braccianti messicani sfruttati nei campi. Inoltre, negli Stati Uniti, l’opposizione alla guerra in Vietnam galvanizzò un gran numero di studenti, motivati in parte dall’orrore per la guerra e dal coinvolgimento diretto di molti dipartimenti universitari di scienze e scienze sociali, in parte dall’opposizione alla leva che obbligava grandi masse di giovani a combattere, magari perdendo la vita o subendo terribili ferite. Gli anni Sessanta videro quindi culminare diverse rivendicazioni di diritti e libertà – tra i lavoratori, nelle varie minoranze etniche e tra gli studenti – e al contempo, negli Stati Uniti e altrove, le proteste contro quello che è forse il più grande attacco ai diritti e alle libertà che possa esistere: la guerra.
I conflitti degli anni Sessanta furono rilevanti in quasi tutte le parti del mondo dotate di istituzioni formalmente democratiche: il Nord America, l’Europa occidentale, il Giappone, l’Australasia. Le rivolte contro le dittature, ad esempio quelle contro vari alleati degli Stati Uniti in America Latina o contro il dominio sovietico in Cecoslovacchia e in Polonia, furono in parte legate a questi conflitti. Le prime ricevettero la solidarietà dei movimenti nordamericani ed europei, soprattutto attraverso la figura simbolica di Che Guevara. Anche le fallimentari rivolte ceca e polacca presentavano affinità con le proteste occidentali, soprattutto a livello studentesco.
Tra tutte queste, la lotta degli studenti fu quella che ebbe la durata minore e che sollevò le questioni concrete meno serie, anche se bisogna ricordare che in Cecoslovacchia, in Francia, in Italia e negli Stati Uniti alcuni studenti rimasero uccisi nel corso dei conflitti, spesso per mano delle forze di polizia. Questo però non significa che la componente studentesca del Sessantotto sia scomparsa senza lasciare traccia. Il suo motivo principale era un’istanza di partecipazione. Si trattava di un appello rivolto innanzitutto all’amministrazione delle università, ma capace di estendersi all’intera società, nel tentativo di rivolgersi a chiunque si trovasse fuori dai ranghi delle piccole élite che sembravano decidere ogni cosa, anche laddove esistevano meccanismi formali di partecipazione, come ad esempio i parlamenti.
Nei decenni successivi, la richiesta di maggior partecipazione sarebbe riecheggiata negli appelli alla trasparenza, nel rifiuto di una deferenza ammirata e acritica nei confronti dell’autorità e addirittura nel rifiuto dell’autorità dello stesso governo (allo stesso tempo, alcuni gruppi militanti all’interno dei movimenti di protesta seguirono la lunga tradizione delle élite rivoluzionarie mostrandosi fortemente intolleranti verso coloro che, tra i partecipanti, avevano una visione diversa dalla loro).
Le rivolte in Europa si percepivano chiaramente come parte della sinistra politica, soprattutto di quella marxista. Il dialogo con gli operai dell’industria era quindi per loro di estrema importanza.
Ma già all’inizio degli anni Ottanta le ondate di scioperi erano scemate. I governi adottarono gradualmente politiche neoliberiste, il che voleva dire tra le altre cose che essi rinunciarono a garantire una piena occupazione maschile a fronte della pressione inflazionistica. Ne scaturì una disoccupazione crescente che fiaccò la militanza. Allo stesso tempo, il tasso di occupazione nei due settori chiave per i movimenti operai organizzati, quello manifatturiero e quello minerario, iniziò a far registrare il calo più forte nella sua storia. Il terreno principale dell’azione dei sindacati si spostò nei servizi pubblici. In molti paesi, i livelli di conflitto e le iscrizioni ai sindacati iniziarono una caduta che sarebbe durata a lungo.
Con la scomparsa della rivolta studentesca e della militanza nelle fabbriche, la fine della guerra in Vietnam nel 1975 e la frammentazione del movimento americano per i diritti civili in una galassia di fazioni in guerra, si poteva avere l’impressione che l’eredità del Sessantotto come ispiratore dei movimenti di protesta fosse morta.
Il movimento studentesco era stato a guida fortemente maschile, sminuendo spesso la questione femminile e usando talvolta la liberazione sessuale, che faceva parte del fenomeno degli anni Sessanta, come un’occasione di molestie sessuali. Fu anche in reazione a questa caratteristica del movimento studentesco che le donne, soprattutto negli Stati Uniti, iniziarono a esprimere istanze di liberazione dal dominio maschile. Tali istanze assunsero poi una portata generale, determinando dei mutamenti nella consapevolezza delle relazioni di genere che hanno trasformato e continuano a mettere in discussione quasi ogni ambito della vita, dal pareggiamento dei salari al controllo della riproduzione. Dal femminismo emersero in seguito movimenti più generali interessati ai temi della sessualità e dell’orientamento sessuale.
Il movimento ambientalista nacque direttamente dalla critica sessantottina del capitalismo, rafforzandosi poi grazie alla crescente consapevolezza scientifica dei danni all’ambiente provocati dall’attività economica: la distruzione degli alberi causata dalla pioggia acida, le minacce di estinzione per specie vegetali e animali, danni più generali legati all’inquinamento e, più di recente, lo stesso cambiamento climatico. Al pari del femminismo, l’ambientalismo abbracciò numerose cause e assunse una miriade di forme organizzative, espandendosi ben oltre i piccoli gruppi di protesta iniziali. Entrambi i movimenti, però, devono la loro origine al Sessantotto, al suo invito a riflettere in modo originale su nuove problematiche e forme organizzative.
Si può certo sostenere che i fenomeni del Sessantotto non furono altro di per sé che l’ultima manifestazione di precedenti ondate di conflitto: il movimento pacifista degli anni Cinquanta; le dimostrazioni dei disoccupati e le marce contro il fascismo negli anni Venti e Trenta; le numerose proteste dei lavoratori alla fine del diciannovesimo e all’inizio del ventesimo secolo; e infine tutta la costellazione di rivolte e scoppi di rabbia e disagio risalenti al Medioevo e oltre. C’è però qualcosa di diverso nel Sessantotto, qualcosa che, benché lo colleghi forse a questi episodi di molto precedenti, ha segnato una rottura all’interno del ventesimo secolo. Si tratta del rifiuto delle strutture organizzative formali dei sindacati e dei partiti politici, in particolare di quelli comunisti, i quali, a partire dalla fine dell’Ottocento, erano stati i virtuosi della mobilitazione radicale in molti paesi. I partiti e i sindacati, soprattutto se comunisti, avevano sviluppato – con grande orgoglio, ma anche con grande difficoltà – dei modelli di organizzazione gerarchica e centralizzata. Questi modelli erano pensati per compensare la mancanza di risorse del popolo dei lavoratori, sfruttando al meglio la sua forza principale, vale a dire i numeri, posto che tale forza potesse essere espressa in un modo altamente disciplinato. In Unione Sovietica e, dopo il 1945, nei paesi dell’Europa centrale e orientale occupati dall’esercito russo, il governo e la vita sociale in generale erano organizzati in base agli stessi principi, rendendo possibile la dittatura di Iosif Stalin e altri leader comunisti. Nel 1953 le truppe sovietiche schierarono i carri armati contro i lavoratori di Berlino Est, uccidendone diverse decine. Nel 1956 fecero la stessa cosa su più vasta scala contro una rivolta popolare in Ungheria. Alla luce di questi eventi, i giovani con idee di sinistra nati all’inizio degli anni Quaranta, cioè la generazione del Sessantotto, crebbero con un’immagine del comunismo sovietico diversa da quella che gli derivava dai loro genitori. “Stalinista” divenne un sinonimo di oppressione tanto forte quanto “capitalista”. Questi giovani cercarono ispirazione in Lev Trotskij, un altro leader della Rivoluzione russa ostile alla macchina burocratica che Stalin aveva creato in Russia e il cui nome era legato alle idee di lotta permanente e di mobilitazione di massa. Stalin lo aveva fatto assassinare durante il suo esilio in Messico.
I partiti comunisti avevano cercato di prendere parte al movimento del Sessantotto, ma in paesi come l’Inghilterra o la Germania, in cui essi erano di piccole dimensioni, furono facilmente tenuti ai margini dai gruppi trotskisti. Dopo essersi inizialmente opposto alla grande mobilitazione parigina del maggio ’68, ritenendo che non fosse il giusto momento storico per la rivoluzione, il Partito comunista francese cercò allora, senza successo, di guidarla. Il partito italiano, invece, aveva già iniziato da tempo a ripensare il suo rapporto con il modello sovietico ed ebbe un po’ più di successo. In generale, però, i movimenti del Sessantotto si caratterizzarono per il loro rifiuto delle forme comuniste, ma anche socialdemocratiche e sindacali, dei movimenti di sinistra gerarchici e burocratici. La natura spontanea e orizzontale dei nuovi conflitti industriali corrispondeva bene a questo modello. Così, il Sessantotto prefigurò alcuni sviluppi nell’organizzazione della protesta che, con tutti i vantaggi e gli handicap connessi, anticipò molti elementi della vita di fine Novecento e inizio Duemila.