L’integrazione europea è prima di tutto un processo industriale ed economico, di cui tuttavia la politica è il frame necessario. Quest’ultima ne accompagna le evoluzioni, ovvero principalmente come si organizzano i rapporti tra gli Stati, le loro istituzioni e i Mercati.
I rapporti Stato-Mercato, infatti, valgono anche al plurale e se sono i Mercati a dominare sugli Stati, l’integrazione è un gioco a somma positiva solo per alcuni o, meglio, per pochi, sia a livello nazionale che sovra-nazionale.
Se, al contrario, nella diade Stato-Mercato fossero gli Stati a guidare il processo di sviluppo e integrazione sovra-nazionale si potrebbe incidere sui risultati di tale processo a vantaggio dei più o, per lo meno, anche i processi elettorali che si sono tenuti in questi giorni nei vari Stati membri dell’Unione Europea avrebbero una valenza e un’incidenza reali.
Le elezioni europee svoltesi tra il 23 e il 26 maggio ci restituiscono uno scenario incerto, fatto di volatilità elettorale e disorientamento. L’Italia, la Francia, la Polonia e l’Ungheria risultano i Paesi nei quali l’euroscetticismo di destra (radicale) o il sovranismo di destra hanno raccolto la maggioranza delle preferenze. Il resto dei Paesi membri vede, invece, una stabilizzazione del consenso tra forze liberali di sinistra, destra e verdi, probabilmente a fronte di una riattivazione del fronte europeista dinanzi alla paura dell’ondata euroscettica. Nel Parlamento di Bruxelles, i popolari (PP) e i socialisti (SeD) conservano una posizione di preminenza, ma non più di maggioranza, tanto che le forze liberali e centriste (ALDE) e i verdi (V) – questi ultimi in notevole crescita – saranno fondamentali per tale costruzione. La sinistra radicale, riunita nel gruppo GUE/NGL, perde consensi e la destra radicale (MENL) ne guadagna.
Ad ogni modo, questi risultati paiono più rilevanti per i singoli Paesi che a livello europeo, innanzitutto perché il Parlamento europeo non ha un reale potere legislativo, essendo questo in realtà nelle mani della Commissione e, in secondo luogo, perché il senso comune di allarmismo e preoccupazione dell’avanzata xenofoba e antieuropeista, da un lato, e un certo senso di rivolta contro le istituzioni europee – percepite come ancora più distanti dal cittadino di quelle nazionali – dall’altro, si traducono di fatto in un gattopardesco “tutto cambi affinché nulla cambi”.
Dunque, l’istituzione Europa resiste, con circa il 50% di affluenza alle urne (dato mediamente in crescita nei principali Paesi europei; l’Italia ha, invece, registrato un calo). Si tratta di percentuali più alte di quelle a cui siamo abituati, ma che testimoniano comunque una partecipazione della metà dell’elettorato attivo. Questo è un dato rilevante perché il 50% dei cittadini europei che non si sono espressi potrebbero aver scelto l’astensione per vari motivi, ad esempio perché non si sentono rappresentati o perché non ritengono di poter incidere nel processo di decision-making europeo.
Ad ogni modo, il processo di integrazione europea sembra ingessato: il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, ovvero il Trattato di Lisbona, è entrato ufficialmente in vigore dieci anni fa, intervenendo su competenze, ambito di attività e funzionamento dell’Unione e sostituendo de facto la bocciata Costituzione; mentre il Patto di bilancio europeo, il cosiddetto fiscal compact, è entrato in vigore nel 2013 (firmato da 25 dei 28 Paesi membri: tra i non firmatari c’è anche il Regno Unito!). In buona sostanza, sia l’integrazione tra gli Stati e i rispettivi Popoli che quella tra i vari Mercati non gode di ottima salute e non sembra in crescita.
Inoltre, se si assume l’esistenza di varie “correnti” di pensiero all’interno della diade Stato-Mercato, potremmo dire che l’opzione sovranista finisce per riproporre all’interno della cornice nazionale le stesse politiche neoliberali portate avanti a livello sovranazionale. Perché in ogni caso a contare non sarebbe il popolo-comunità, ma il Mercato di quel preciso Popolo.
Dunque, non i Mercati, ma il Mercato. È una questione di plurale e singolare, dove, semplificando, gli europeisti preferiscono il primo e gli antieuropeisti il secondo.
In Europa il peso di molte forze sedicenti populiste di destra, sovraniste o nazionaliste rimane relativo, ma è in crescita, mentre le forze socialdemocratiche devono ringraziare principalmente il PSOE di Sánchez per il buon risultato e la sinistra radicale paga il prezzo del voto utile.
Sono, dunque, l’incertezza e lo stallo politico a regnare sovrani, non il popolo o i popoli, soggetti prediletti non solo dalle narrazioni sovraniste e populiste, ma anche, in generale, dalle varie campagne elettorali. La disputa europea si gioca, in effetti, in nome del popolo-comunità (sovra-nazionale) o del popolo-nazione, il punto è quanto questo rappresenti un vero soggetto di riferimento, destinatario reale di politiche e interventi pubblici e quanto, invece, sia un contenitore vuoto, in nome e per conto del quale si tenta di far sopravvivere o costruire un progetto di integrazione o di tutelare i propri confini in un’ottica protezionista. Di fatto, la maggioranza dei consensi l’hanno conquistata le forze europeiste di tutto lo spettro politico: che questa sia la premessa per parlare di integrazione è vero, ma di che tipo di integrazione è da vedere.