Il COVID-19 sembra colpire meno le donne degli uomini. In Italia, i contagiati sono per il 53% uomini e per il 47% donne, ma se si considerano i morti questi sono per il 68% uomini e per il 32% donne. Tuttavia, stanno iniziando a circolare studi che provano ad inserire una prospettiva di genere nell’analisi dell’impatto della pandemia e sembra chiaro che, al di là della malattia, le donne rischiano di pagare un costo molto elevato.
Se ci concentriamo sull’impatto economico, l’esperienza delle recessioni passate non aiuta molto a capire che impatto stia avendo il COVID-19 a livello di genere, perché sono maggiormente gli uomini ad essere stati colpiti. Questo è per esempio vero nell’ultima crisi finanziaria, dove sono stati più gli uomini delle donne a perdere il lavoro. Ma una crisi sanitaria ha un impatto molto diverso sul sistema produttivo rispetto ad una crisi finanziaria. I settori più colpiti a causa del prolungato lockdown sono settori come il turismo e il commercio, ad alta presenza femminile, sia a livello di occupazione che di imprenditorialità. Per quanto riguarda le imprese, quelle femminili tendono normalmente ad essere discriminate dalle banche e ora sono sicuramente a rischio se il loro bisogno di liquidità non verrà soddisfatto dal sistema finanziario. In generale, le donne sono pagate meno e sono spesso occupate con contratti a termine o altre forme contrattuali atipiche e precarie. È quindi probabile che saranno le prime a perdere il posto di lavoro perché più facilmente licenziabili. Tanto più se a breve dovranno tornare al lavoro e le scuole non riapriranno. Per molte con figli piccoli, sarà impossibile trovare una soluzione e, complici i bassi salari rispetto a quelli degli uomini, saranno costrette a gettare la spugna o considerate poco affidabili, saranno lasciate a casa dai datori di lavoro.
Quando il posto di lavoro non lo perdono, le donne si ritrovano a lavorare a casa con lo smartworking che potrebbe essere una opportunità per conciliare meglio la vita produttiva con la vita famigliare. Il problema però è che le donne si trovano di fatto a sopportare un carico di responsabilità impossibile da gestire. Il lavoro produttivo (pagato) si somma e si accavalla con il lavoro domestico e la cura dei figli. Come ha scritto Polito sul Corriere della Sera: in questi giorni le donne preparano i pasti, organizzano meeting su Zoom per loro e per i figli, a cui fanno fare i compiti, fanno la spesa e mantengono i contatti sociali con gli amici e i parenti. Insomma lo smartworking rischia di diventare per molte donne una trappola senza uscita e per il paese una ulteriore perdita di un’importante parte del suo capitale umano.
La riposta dello Stato italiano alla necessità sempre più stringente di conciliare lavoro e cura dei figli, che nei modelli familiari sud europei è ancora ad appannaggio preponderante delle donne, durante l’emergenza Covid si è composta di due strumenti principali proposti all’interno del decreto Cura Italia, D.L. 17 marzo 2020, n. 18. Da un lato, per supportare il lavoro femminile, è stato proposto il cosiddetto ‘bonus baby-sitter’, stanziamento da 600 euro che può essere chiesto da genitori lavoratori di figli fino a 12 anni. Il beneficio sale a 1.000 euro per il personale sanitario, per le forze dell’ordine e tutto il personale impiegate per l’emergenza Coronavirus. Dall’altro lato, è stato promosso un ‘congedo parentale straordinario’ – quindi, in aggiunta agli eventuali periodi di congedo fruibili regolarmente – di quindici giorni. Il congedo è retribuito con stipendio al 50%. Può essere richiesto da entrambi i genitori non in contemporanea, in famiglie con figli di meno di 12 anni. Nella fascia d’età 13/15 anni il congedo si può chiedere lo stesso ma la retribuzione scende a zero. È una misura alternativa sia al bonus ‘baby-sitter’, sia ad altri strumenti di sostegno al reddito per sospensione dell’attività lavorativa o fruizione di reddito di cittadinanza, con cui risulta incompatibile, e non può essere fruito da soggetti in cassa integrazione o privi di occupazione. Sia bonus baby-sitter che congedo parentale sono fruibili in caso di smartworking.
Infine, c’è un ulteriore problema che si è esasperato in questi giorni di isolamento: l’aumento della violenza domestica, come denunciato dall’OMS. Se, da un lato, la permanenza nell’ambiente domestico è indirizzata all’aumento della sicurezza, legittimato dalla necessità di protezione dalla diffusione del virus, dall’altro lato l’isolamento domestico dei singoli nuclei familiari mette a rischio la sicurezza stessa delle donne. La convivenza forzata con mariti o compagni aggressivi e violenti produce un ulteriore fattore di rischio per le donne soggette a violenza, e l’ambiente domestico, scelta obbligata al momento al fine della tutela della salute propria e quella dei propri cari, si trasforma in un ambiente ricco di pericoli. L’ampiezza del fenomeno nel caso italiano è osservabile guardando i dati circa le chiamate al 1522, il servizio antiviolenza e antistalking promosso dal Dipartimento delle Pari Opportunità e gestito dalle volontarie del Telefono Rosa. Come riporta Repubblica, nella settimana dall’8 al 15 marzo il 1522 ha ricevuto 496 in totale rispetto alle 1104 degli stessi giorni del 2019, per una diminuzione di circa il 55%. Inoltre, mentre in periodo normale le chiamate di primo contatto compongono circa il 75% del totale, dall’inizio della quarantena si sono ridotte al 25%, testimoniando la difficoltà delle donne, costrette alla convivenza e al conseguente costante controllo, a lanciare anche minime richieste d’aiuto.
Ma dall’emergenza Covid-19, come in generale da tutte le crisi, possono venire anche importanti stimoli al cambiamento. Un aspetto singolare dell’emergenza è che può essere vista come una sorta di sperimentazione su ampia scala di possibili nuovi modelli organizzativi familiari e lavorativi dai quali si possono ricavare alcune considerazioni utili, anche in una prospettiva di genere. In primo luogo, molte resistenze da parte del mercato del lavoro nei confronti dell’applicazione di forme di lavoro agile sono state, per necessità, superate mostrando che modelli organizzativi diversi dalle forme di impiego di lavoro tradizionale sono, in molti casi, possibili ed egualmente efficienti. In secondo luogo, in moltissimi settori lo smartworking ha riguardato nella stessa misura lavoratori e lavoratrici, mostrando che la flessibilità può rappresentare un’opportunità per entrambi e non una risposta ad un’esigenza di conciliazione delle donne. Da questo punto di vista, questo ‘esperimento’ potrebbe rappresentare un punto di svolta importante nel modello culturale prevalente nella nostra società, spingendoci a ripensare ai modelli e ai tempi familiari e lavorativi in una prospettiva di eguaglianza di genere, favorendo una maggiore flessibilità degli orari e dei ritmi di vita, la riorganizzazione delle città in una direzione più family and environmental friendly, con minor congestione dal traffico e un impatto positivo sull’ambiente e sul nostro benessere. Si tratta però di scongiurare il rischio – tutt’altro che remoto – che, al contrario, questa svolta finisca per rafforzare stereotipi e generare ulteriori svantaggi e forme di marginalizzazione delle donne nel mondo del lavoro e nella società, scaricando interamente su di loro le responsabilità di cura, in ragione di una più facile conciliazione delle responsabilità familiari resa possibile dallo smartworking. Certo, una maggior presenza – in alcuni casi anche solo la presenza – di donne nelle task force e nei tanti comitati di esperti ora prevalentemente maschili potrebbe aiutare a indirizzare la discussione nella direzione giusta.