Si propone qui un estratto del capitolo “Gli innovatori sociali e le aree del margine” tratto dal volume Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, a cura di Antonio Rossi e pubblicato da Donzelli. Ringraziamo l’Editore e gli autori per la gentile concessione.
La centralità della città come luogo dell’innovazione, non soltanto sociale, è nota[1] e, in effetti, la popolazione degli innovatori sociali è ancora tipicamente urbana[2]. I grandi conglomerati urbani, grazie alla contemporanea presenza di servizi e di spazi di scambio informale, facilitano la contaminazione dei saperi e l’ibridazione delle pratiche attraverso forme di scambio anche casuale – il cosiddetto buzzing – che sono alla base dei processi innovativi[3]. Esiste tuttavia uno spazio importante per l’innovazione sociale rivolta alle aree interne, lontane dai servizi, nonché alle piccole e medie città: citiamo per esempio le green communities, i modelli innovativi nei servizi socio-sanitari e nella scuola, la mobilità condivisa e le soluzioni di housing sociale, la valorizzazione delle filiere agro-alimentari e dei lavori connessi alla ricerca di stili di vita low profit. Nelle aree rurali pensiamo ai «nuovi contadini» e ai «nuovi montanari»[4], in quelle urbane all’artigianato tecnologico, alle energie rinnovabili[5] e ai local commons[6]. In modo sempre meno sporadico, anche le aree interne possono essere luoghi in cui realizzare forme di innovazione sociale ai margini – ma non «marginali»[7] – affiancate e sostenute da politiche dedicate[8]. Il riferimento è alle varie forme di sviluppo territoriale in cui il «fare impresa» è connesso a processi di costruzione comunitaria, di messa in campo di forme di governance inclusive, di empowerment individuale e collettivo, a partire dalla creazione e dalla distribuzione di valore economico a impatto sociale. Anche al di fuori dei contesti urbani, dunque, è possibile creare le condizioni favorevoli per soluzioni innovative che provino a contrastare alcune delle criticità tipiche delle aree interne: diseguaglianze economiche e sociali, esclusione da fondamentali servizi «di cittadinanza» quali trasporti, istruzione e servizi, senza scordare le più impalpabili diseguaglianze di riconoscimento[9] che – cariche di valore simbolico e identitario – hanno acceso la miccia della «vendetta dei luoghi che non contano», per riprendere la felice formulazione di Andrés Rodríguez-Pose[10].
Le notevoli differenze territoriali nei destini delle aree interne sul territorio nazionale segnalano che innovazione, imprenditorialità diffusa e gestione sostenibile dei beni comuni possono avere importanti ricadute[11]. Ad esempio, in anni recenti sono stati sperimentati alcuni progetti per contrastare lo spopolamento delle aree interne tramite «progetti di territorio» capaci di valorizzare l’azione pubblica e i beni comuni. Paradigmatico è il caso delle aree montane, aree interne particolarmente colpite dalle «spirali perverse» del sottosviluppo. Le iniziative avviate in questi contesti hanno saputo rielaborare aspetti tradizionali dei saperi locali, spesso relativi ad aspetti centrali dei consumi e della vita quotidiana, e sono state in molti casi capaci di intercettare le tendenze attuali dei consumatori, coniugando la risposta al mercato con l’implementazione di una cultura d’impresa e di modelli gestionali radicati nel territorio e sostenibili da un punto di vista sociale e ambientale. Questi e altri esempi, che emergono nella cornice del neo-ruralismo, rovesciano un’immagine «conservativa» e stereotipata sull’estetismo (tipicamente urbano) del «paesaggio storico» delle aree interne come luogo del loisir domenicale o regno della «natura incontaminata» a favore di una loro visione come luoghi di innovazione dove un’imprenditorialità capace di stare «sul mercato», tiene insieme valore economico, cittadinanza attiva e territorio.
Nella loro innegabile eterogeneità, le esperienze di innovazione sociale nelle aree interne a supporto di un diverso rapporto tra economia-società-ambiente possono essere collocate all’interno dello spazio che Kate Rawhort[12] ha definito «economia della ciambella»: tra il «soffitto» dei limiti ambientali[13] e il «pavimento» della cittadinanza sociale. Il rispetto dei limiti bio-fisici contribuisce a mantenere la stabilità del pianeta, evitando cambiamenti drammatici nello stock di risorse naturali a disposizione dell’umanità nel suo complesso. Il «pavimento» è l’insieme dei beni e delle capacità di accesso/uso che generano i funzionamenti elementari della cittadinanza[14]. Le diverse ed eterogenee esperienze di innovazione sociale assumono, se delimitate dallo spazio analitico disegnato dall’economia della ciambella, una connotazione più specifica e univoca. Ciò però richiede di non concepire l’innovazione sociale come un insieme di «soluzioni» che scaturirebbero «magicamente» dalla capacità auto-organizzativa della società, con tempi di reazione veloci e con impatti e livelli di scala adeguati, affrontando e risolvendo problemi economici, sociali e ambientali[15]. Le pratiche di innovazione sociale devono essere concepite come il possibile effetto dell’azione di agenti del cambiamento che disegnano nuovi mercati, prodotti, servizi e modelli organizzativi. Tali agenti, inoltre, non devono essere intesi come individui eroici dalle caratteristiche eccezionali, uniche e irripetibili, ma come sub-popolazione che innesca azioni individuali e collettive radicate in specifiche condizioni di contesto[16].
Gli innovatori sociali e il territorio.
Così come l’innovazione sociale – dalla letteratura con finalità applicative a quella scientifica – viene descritta spesso come la panacea di tutti i problemi sociali, anche le narrazioni relative agli innovatori sociali sono spesso «epiche», resoconti di azioni eroiche di singoli individui eccezionali capaci con le loro idee e il loro carisma di affrontare
risolvere i più complessi wicked problem[17]. Certamente gli innovatori sociali sono spesso «individui eroici, energetici e impazienti»[18]. Ma, come nota Drayton, tra le molte persone creative e con idee innovative, solo poche sono in grado con le loro azioni di produrre davvero un «cambiamento sociale su larga scala»[19]. Per conoscere più da vicino gli «agenti del cambiamento» in Italia, e svincolarsi dalle biografie degli «eroi», abbiamo coinvolto tra il 2015 e il 2017 un gruppo di innovatori sociali in una ricerca con l’obiettivo di esplorarne orientamenti e valori[20].
A prima, parziale, conferma del fatto che l’innovazione sociale non è estranea alle aree interne, anche se esprime ancora prevalentemente nei contesti urbani, oltre il 40% degli innovatori sociali che abbiamo intervistato risiede in centri con meno di 20.000 abitanti. Anche se la new wave dell’innovazione sociale in Italia tende a concentrarsi nelle regioni del Centro-nord, gli innovatori sociali come popolazione sono presenti in tutto il paese, da Nord a Sud. Gli innovatori sociali sono connessi da reti che, in alcuni casi, attraversano il territorio nazionale. In particolare, dove le pratiche di innovazione sociale sono più numerose – ad esempio al Nord e in alcune regioni del Sud, come la Puglia, la Basilicata e l’Abruzzo – le connessioni sono molto ancorate al territorio, spingendosi al massimo a includere le regioni limitrofe. Al contrario, i territori meno attivi mostrano connessioni più lunghe, proiettate in regioni anche molto distanti dalla propria. Gli innovatori sociali di Calabria e Sicilia generano legami ad ampio raggio, che li connettono alle regioni settentrionali come il Piemonte, la Lombardia, il Trentino e il Veneto. La dimensione locale delle pratiche di innovazione sociale, quindi, si può accompagnare al superamento delle distanze geografiche, specie quando il territorio non offre le risorse sperate.
Il profilo tipico degli innovatori sociali è quello di persone molto propense a muoversi sul territorio: oltre il 74% sarebbe disposto a trasferirsi per motivi di lavoro anche all’estero (più che in un’altra regione italiana). Peraltro, i legami sociali che caratterizzano la comunità degli innovatori sociali sono fortemente omofili e consentono, anche in caso di trasferimento, di ri-tessere un reticolo di relazioni simili a quelle possedute in partenza, «risarcendo» così rapidamente le perdite in termini di capitale sociale conseguenti al trasferimento. Il debole radicamento sul territorio è, tuttavia, solo apparente: l’area locale è considerata dal 77% degli intervistati come un luogo ricco di opportunità, almeno per chi è in grado di coglierle. Inoltre, il 66% si dichiara molto legato al territorio dove sta svolgendo la propria attività, anche se in oltre la metà dei casi (58%) non è escluso un trasferimento futuro[21].
Quest’ultimo dato deve far riflettere sulle capacità (o l’incapacità) di dare spazio alle progettualità degli innovatori sociali, con politiche pubbliche e risorse economico-finanziarie dedicate, affinché le aree interne continuino a esercitare la loro forza di attrazione verso chi ha le capacità di ideare e sperimentare proposte innovative.
Il legame degli innovatori sociali con l’area locale, inoltre, è prezioso perché si accompagna a un profondo senso di responsabilità verso il contesto nel quale si trovano a operare. Per gli innovatori sociali intervistati, non basta «fare impresa» per contribuire al benessere della comunità locale, ma le loro azioni dovrebbero essere orientate alla promozione attiva del contesto in cui operano ed estendersi secondo alcuni fino a ricomprendere anche l’impegno diretto in politica.
Radicati ma mobili, orientati al mercato e alla responsabilità verso la comunità territoriale, gli innovatori sociali che decidono di investire il loro potenziale nelle aree interne andrebbero sostenuti come beni meritori e, allo stesso tempo, andrebbe individuato il potenziale inespresso di queste aree, in almeno tre direzioni: 1) attivando modelli di cooperazione nelle più diverse e nuove forme (nuove tecnologie, nuove relazioni sociali, nuove rappresentazioni della domanda, nuovi concetti di beni e servizi ecc.); 2) ideando modelli di sviluppo della conoscenza e delle pratiche imprenditoriali e di lavoro aperti/inclusivi per gli stessi giovani che vivono in aree interne e le sedi che li formano; 3) sperimentando modelli di governance che spiazzino le élites estrattive[22], per questo, capaci di supportare forme di innovazione, formazione e valorizzazione dei beni comuni.
[1] N. M. Davidson – J. J. Infranca, The Sharing Economy as an Urban Phenomenon, in «Yale Law & Policy Review», XXIV, 2016, 2-1.
[2] F. Barbera – T. Parisi, Innovatori sociali. La sindrome di Prometeo nell’Italia che cambia, il Mulino, Bologna, 2019
[3] L. Burroni – C. Trigilia, Introduzione, in Le città dell’innovazione sociale. Dove e perché cresce l’alta tecnologia in Italia, a cura di Idd., il Mulino, Bologna 2010, p. 10.
[4] F. Corrado, G. De Matteis, A. Di Gioia (a cura di), Nuovi montanari. Abitare le Alpi nel XXI secolo, FrancoAngeli, Milano 2014; J. D. van der Ploeg, I nuovi contadini. Le campagne e le risposte alla globalizzazione, Donzelli, Roma 2008.
[5] G. Carrosio, Economia civile e gestione delle risorse ambientali nelle aree interne, in
«Territorio», 2015, 74, pp. 115-21.
[6] F. Barbera, N. Negri, A. Salento, From Individual Choice to Collective Voice. Foundational Economy, Local Commons and Citizenship, in «Rassegna italiana di sociologia», 2018, 2, pp. 371-98.
[7] G. Carrosio – G. Osti, Le aree marginali, in Fondamenti di sociologia economica, a cura di F. Barbera e I. Pais, Egea, Milano 2017.
[8] Come, ad esempio, la Strategia nazionale per le aree interne (Snai)
[9] F. Barca, Inequalities, Anger and Territorial Dimension. The Urban-rural Divide, its Cause and Italian Place-based Strategy to Tackle it, paper per la conferenza «Trends in Inequality. Social, Economic and Political Issues», Istituto Cattaneo, Bologna, 2-4 novembre 2017.
[10] A. Rodríguez-Pose, The Revenge of the Places that Don’t Matter (and What to Do about It), in «Cambridge Journal of Regions, Economy and Society», 2018, 11, pp. 189-209.
[11] G. Cerea – M. Marcantoni (a cura di), La montagna perduta. Come la pianura ha condizionato lo sviluppo italiano, FrancoAngeli, Milano 2016.
[12] K. Rawhort, L’economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo, Edizione Ambiente, Milano-Roma 2017.
[13] D. H. Meadows, D. L. Meadows, J. Randers, W. W. Behrens III, I limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano 1972.
[14] A. Sen, Inequality Reexamined, Oxford University Press, Oxford 1992.
[15] R. Heiskala, Social Innovations. Structural and Power Perspectives, in Social Innovations, Institutional Change and Economic Performance. Making Sense of Structural Adjustment Processes in Industrial Sectors, Regions and Societies, a cura di T. J. Hämäläinen e R. Heiskala, Elgar-Sitra (Finnish Innovation Fund), Cheltenham-Northampton 2007, pp. 52-79.
[16] Barbera – Parisi, Innovatori sociali cit.
[17] 17 J. Alford – B. W. Head, Wicked and Less Wicked Problems. A Typology and a Contingency Framework, in «Policy and Society», XXXVI, 2017, 3, pp. 397-413.
[18] G. Mulgan e altri, Social Innovation. What it is, Why it Matters and How it Can be Accelerated, Skoll Centre for Social Entrepreneurship Working Paper, 2007, p. 13, eureka.sbs.ox.ac.uk/761/1/ Social_Innovation.pdf.
[19] W. Drayton, The Citizen Sector. Becoming as Competitive and Entrepreneurial as Business, in «California Management Journal», XLIV, 2002, 3, pp. 123-4: 124.
[20] La ricerca si è svolta in tre fasi: 1) primi mesi del 2015: costruzione del campione e somministrazione di un primo questionario breve (scheda anagrafica e tre parole chiave per descrivere l’innovazione sociale) (N=314); 2) fine 2015-inizio 2016: somministrazione al medesimo campione di un secondo questionario più articolato (origine sociale, carriere e valori) (N=161); 3) inizio 2017: conduzione di interviste in profondità a un gruppo di innovatori sociali di Torino e Milano, per approfondire alcune delle tematiche emerse. Si rimanda a Barbera – Parisi, Innovatori sociali cit. per maggiori approfondimenti sulla metodologia utilizzata nella costruzione del campione. I dati che presentiamo in questo saggio fanno riferimento ai dati raccolti nella seconda fase della ricerca (N=161).
[21] Segnaliamo che tra gli innovatori sociali intervistati residenti in centri con meno di 20 000 abitanti la propensione al trasferimento della propria attività è inferiore, pari al 42%.
[22] D. Acemoglu – J. A. Robinson, Persistence of Power, Elites, and Institutions, in «American Economic Review», XCVIII, 2008, 1, pp. 267-93.