L’evoluzione del rapporto tra sistema industriale, strutture sociali e scelte politiche sembra condurci verso un mondo caratterizzato da: il dominio della tecnologia e la crescita dei suoi tassi di sviluppo e di obsolescenza; la costruzione di monopoli industriali che dello sviluppo tecnologico – ed in particolare di quello digitale – sono figli; la riduzione della domanda di lavoro; la progressiva contrazione della quota di reddito d’impresa attribuita al lavoro e la corrispondente crescita di quella destinata alla remunerazione del capitale; l’aumento dei poveri che lavorano; l’incremento del numero dei ricchi che non lavorano; la progressiva scomparsa della classe media, architrave dei sistemi democratico-liberali a capitalismo sviluppato; la concentrazione della ricchezza in poche mani; la progressiva dissoluzione di forme di rappresentanza organizzate.
Se questo è il percorso che ha imboccato la “struttura” economica e sociale (divertiamoci un poco con Engels, che uno studente confuse con Hegel, in un esame di alcuni mesi or sono….), allora è relativamente semplice immaginare il processo di cambiamento della “sovrastruttura” politica, che potrà essere segnato da: il rafforzamento dell’influenza dei gruppi industriali e finanziari sull’attività legislativa e di governo (per inciso, la debolezza del sistema industriale italiano potrebbe ben essere una delle ragioni della limitata capacità dei nostri governi di incidere a livello internazionale); la sparizione di quelli che J.K. Galbraith definiva i “poteri compensativi”, gruppi di interesse in grado di condizionare l’attività politica senza mai essere maggioritari o comunque dominanti; la subordinazione della legislazione agli interessi di relativamente pochi, influenti, soggetti. Il tutto condito dal monito “così chiede il mercato”, signore di fronte al quale la globalizzazione della finanza e l’internazionalizzazione della tecnologia ci costringerebbero ad inchinarci.
Se fosse davvero così, sarebbe la fine delle democrazie come sistemi di libertà ed inclusione: perché, come disse Louis Brandies, “Possiamo avere la democrazia o possiamo avere la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo averle entrambe”.
Ma il mercato non è uno stato di natura bensì una creazione dell’uomo, ha spiegato Karl Polany, e le conseguenze del suo operare dipendono dalle regole di funzionamento che la politica stabilisce per lui. Regole che, nel nome di un’efficienza allocativa non sempre dimostrata, possono discriminare tra soggetti in virtù della loro capacità di influenza; ovvero invece incentivare una distribuzione del reddito e della ricchezza che, limitando la distanza tra vertice e base della piramide sociale, salvaguardi capacità di consumo e risparmio, opportunità professionali e dignità dei cittadini – tutti elementi fondamentali della coesione sociale – stimolando al tempo stesso investimenti ed innovazione.
La strada, forse, sarebbe quella di definire in modo diverso dall’attuale le regole in base alle quali, da un lato, le imprese investono e la loro proprietà si trasferisce e, dall’altro, le condizioni alle quali le persone offrono ed ottengono lavoro. Qui possiamo solamente fare alcuni esempi.
Perché, in un mondo in cui la durata della tecnologia si riduce i brevetti debbono ancora avere una vita così lunga? La disponibilità delle invenzioni consentirebbe di allargare il numero dei concorrenti in grado di produrre un bene ed ostacolerebbe la creazione di monopoli od oligopoli collusivi.
Perché non si potrebbe vietare la pratica del “pay for delay” (molto comune nell’industria farmaceutica, ad esempio, ma non solo), che consiste nel compensare le imprese concorrenti per fare in modo che, una volta scaduto un brevetto, esse non producano i beni che incorporano l’invenzione per la quale è scaduto il diritto allo sfruttamento esclusivo? Concorrenza e prezzi ne trarrebbero sicuri benefici.
Perché non reintrodurre (aggiornandola per i mutamenti intervenuti nel mercato finanziario) una normativa – presente sino a metà degli anni ’90 del secolo scorso – volta a separare attività del sistema bancario in potenziale conflitto di interesse tra di loro? Si eviterebbero tanto un indebito trasferimento di ricchezza tra intermediari da un lato ed investitori dall’altro, quanto la diffusione di banche “troppo grandi per fallire” e spinte ad operare in un continuo stato di “azzardo morale” grazie alla certezza che la Pubblica Amminstrazione le salverà dal fallimento.
Perché non introdurre un sistema di imposte di successione che prelevi – al momento del trasferimento della proprietà – una quota rilevante della ricchezza creata dall’imprenditore (enorme, nei casi di monopoli generati dalla tecnologia della New Economy) e la metta a disposizione della società? Si eviterebbe la creazione di una casta di rentier senza merito e crescerebbero le risorse a disposizione della Pubblica Amministrazione per sostenere gli investimenti industriali.
Perchè, infine, i trattati per la liberalizzazione del commercio tra paesi non potrebbero prevedere clausole che obblighino i paesi “low cost” ad erogare salari minimi significativi ai loro lavoratori? Si incentiverebbe la creazione di una classe di consumatori e non si costringerebbero i lavoratori delle economie occidentali ad accettare riduzioni significative del loro salario reale per mantenere il posto di lavoro, come sta accadendo dall’inizio del secolo.
Fantasie? Può essere. Ma non era Adam Smith – superficialmente celebrato come il campione del liberismo – a sostenere che “il mercato, lasciato da solo concentra il potere nelle mani di pochi ed uccide le opportunità che dovrebbero essere di molti”?