Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), un mondo a zero emissioni nel 2050 è anche un mondo con più occupazione rispetto al presente in transizione. Stando ai numeri del rapporto “Net-Zero Emissions by 2050”, il saldo tra posti di lavoro aggiunti e posti di lavoro persi sarà positivo per 9 milioni già alla fine di questo decennio: cinque milioni saranno quelli persi globalmente con il progressivo abbandono dei combustibili fossili, 14 milioni saranno invece quelli creati dall’energia pulita. Se allarghiamo lo sguardo alla transizione nel suo complesso, nei prossimi anni serviranno altri 16 milioni di nuovi lavoratori per tutto il settore che va dalla riqualificazione degli edifici alla mobilità sostenibile. La Iea prospetta un quadro totale quindi di 30 milioni di nuovi occupati entro il 2030 nel campo dell’azione per il clima.


In Europa


In Italia, il rapporto più completo sul potenziale della transizione è “Just E-volution 2030”, realizzato da The European House – Ambrosetti in collaborazione con Enel e Fondazione Centro Studi Enel. L’analisi è su base europea con un focus sul nostro Paese. Prendendo in considerazione l’aumento di prodotti/tecnologie elettriche, la diminuzione di prodotti/tecnologie termiche lungo tutte le catene del valore e l’introduzione di nuovi servizi digitali resi disponibili dall’elettrificazione, l’effetto netto finale sul valore della produzione varierà, al 2030, tra +113 miliardi di Euro e +145 miliardi di euro per l’intera Unione europea.

 

All’interno dell’Ue, ci saranno 1,4 milioni di nuovi posti di lavoro, grazie alla sostituzione delle fonti fossili con le rinnovabili e all’elettrificazione dei diversi settori dell’economia. La fetta italiana di questa nuova ricchezza sostenibile oscillerà, secondo questo studio, tra 14 e 23 miliardi di euro, il saldo positivo di posti di lavoro sarà di 173mila nuovi occupati.


In Italia


In Italia però non esistono studi aggregati complessivi che tengano conto di tutta la produzione industriale e di come potrebbe evolversi in uno scenario che viaggia verso le zero emissioni. E questo è un problema, perché ai decisori politici e agli operatori industriali manca una visione di sistema. Spiega Chiara Di Mambro, oggi analista per Ecco Climate dopo una lunga esperienza nel ministero della Transizione ecologica (e prima dell’ambiente): «Ogni produzione avrebbe bisogno del suo studio dedicato, non esiste a oggi una valutazione nazionale che tenga conto di tutte le ricadute in termini di catene del valore. Significa che stiamo navigando senza mappe, mancano una strategia industriale e un’idea di sviluppo dell’Italia, e mancano anche perché non ci sono dati aggregati sui quali fondarle».

 

Una delle analisi più approfondite uscite negli ultimi mesi è “La transizione ecologica che serve all’Italia”, studio di Legambiente uscito poche settimane prima delle elezioni del settembre 2022, contenente 100 proposte economiche al governo che sarebbe arrivato, aggregate per venti temi, nell’orizzonte di smettere di guardare alla transizione come un «bagno di sangue» e tornare a osservarla come un’opportunità da cogliere.

 

«Potremmo accorpare questo flusso di crescita green in tra macro-aree, che procedono a tre diverse velocità», spiega Stefano Ciafani, presidente di Legambiente. «La prima è la transizione energetica vera e propria, nella quale dopo un decennio di ritardi sta finalmente prendendo piede la filiera delle energie rinnovabili. Poi c’è il settore dell’automotive, che in Italia è ancora in ritardo rispetto alla scadenza fissata dalla Commissione europea, il phase-out del motore termico nel 2035. Infine, c’è l’economia circolare, un terreno sul quale da tempo l’Italia è tra i leader europei».


Storie della transizione


La storia manifesto per la transizione energetica è sicuramente l’ampliamento della produzione di pannelli fotovoltaici bifacciali nella fabbrica di Enel Green Power a Catania, con la prospettiva di diventare la più grande d’Europa, attraverso un’espansione di quindici volte della capacità produttiva, da 200MW a 3 GW, e la conseguente creazione di 1.000 posti di lavoro in uno dei territori più depressi d’Italia. Il contesto internazionale amplifica ulteriormente la portata del progetto: nel 2021 il 25 per cento dei progetti di installazione di pannelli solari in Europa era stato posticipato o addirittura cancellato per mancanza di materia prima, oggi quasi interamente importata dall’Estremo Oriente. Su dieci pannelli che vengono prodotti al mondo, sette vengono fatti in Cina e uno in Corea del Sud.

Gli scenari sono destinati a cambiare con l’Ira, l’Inflation Reduction Act votato dal Congresso degli Stati Uniti nell’estate  del 2022, un bazooka finanziario da 700 miliardi di dollari per riportare le filiere dell’economia pulita dentro il territorio americano. L’Unione europea sta provando a reagire al piano americano. Bruxelles sa che non può rimanere isolata o dipendente da catene del valore lunghe e imprevedibili. E progetti come quello di Catania hanno il potenziale di rinverdire quella che, quindici anni fa, era una leadership europea nel settore, poi affievolita a favore della Cina.

Un altro centro di produzione significativo arriverà dalla partnership tra Enel e Comal per aprire una fabbrica di tracker all’interno della centrale di Montalto di Castro, in provincia di Viterbo. I tracker sono i dispositivi che permettono ai pannelli fotovoltaici di orientarsi e seguire il sole nel corso della giornata. I lavoratori saranno 70, arriveranno dal personale dell’indotto degli impianti termoelettrici dismessi dell’area (quindi una buona pratica di formazione e giusta transizione) e la produzione di tracker sarà a supporto di fotovoltaico per un potenziale di 1 GW l’anno.

Come spiega Ciafani

«è particolarmente significativo che questa produzione parta a Montalto, dove si era invano provato a costruire un’inutile centrale nucleare, prima del referendum del 1987». I lavoratori nelle fabbriche di pannelli e tracker saranno l’avanguardia dei 173mila nuovi occupati nel settore energetico, in ambiti che andranno anche oltre la filiera delle rinnovabili: integrazione dei veicoli con la rete, sensori per la mobilità sostenibile, domotica, sistemi di demand response per rendere la rete resiliente ed efficiente, smart network management e tutte le varie intersezioni tra la transizione energetica e quella digitale.


La difficile transizione dell’auto


La situazione del settore automotive è più complessa. Il dato più preoccupante, citato e spesso contestato è quello dell’Anfia, l’Associazione nazionale filiera industria automobilistica, secondo cui 70mila posti di lavoro andrebbero persi a causa della fine della vendita di motori benzina, diesel o ibridi decretata dall’Unione europea con il pacchetto di misure climatiche Fit for 55.

In Italia il settore ha spesso giocato in retroguardia, invocando a livello politico dilazioni, eccezioni o rinvii invece di procedere in modo spedito verso l’elettrificazione. Le vicende dello stabilimento di Mirafiori a Torino e quello dell’ex Gkn a Campi Bisenzio (Firenze) sono in questo senso due facce della stessa, complicata storia. Stellantis ha convertito il polo Mirafiori (Torino) alla produzione della 500 elettrica. Nel 2022 l’impianto ha già sfiorato la quota di 100mila vetture. Il paradosso però è che lo stabilimento ha perso 4mila addetti in quattro anni.

Un tassello verso l’elettrificazione del settore sarà l’apertura di una delle tre gigafactory europee di Stellantis per la produzione di batterie nello stabilimento di Termoli (Molise). La produzione dovrebbe partire nel 2026, con un totale di 2.000 addetti quando arriverà a pieno regime.

Ma il settore che fa più fatica è quello dell’indotto e dei componenti: l’interruzione della produzione di semiassi per Maserati e Ferrari nell’ex Gkn di Campi Bisenzio ne era stata la dimostrazione, con 500 licenziamenti e la chiusura della fabbrica causa delocalizzazione. A oggi, l’ex Gkn è occupata da un collettivo operaio, che ha sviluppato un suo piano industriale autonomo, insieme alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, per condurre la produzione all’interno dell’alveo della transizione ecologica, sfornando semiassi di bus elettrici per il trasporto pubblico locale, componenti per rinnovabili e addirittura biciclette.

Il piano è innovativo e ambizioso, ma è stato finora ignorato dalla nuova proprietà e dai due governi che hanno gestito il tavolo sindacale negli ultimi anni, come se per il settore non ci fosse nessun orizzonte possibile oltre la delocalizzazione e il declino industriale.


Essere circolari


Nel 2022, in Italia, secondo Fondazione Symbola, 241 aziende trasversalmente ai settori hanno avviato produzioni legate all’economia circolare. Globalmente il tasso di circolarità dell’economia è sceso, negli anni del Covid, dal 9,1% all’8,6%. Il nostro Paese però è quello che ha registrato il maggior incremento di produttività delle risorse consumate, indice di un buon funzionamento dell’economia circolare.

Secondo l’ultimo studio di Circular Economy Network, in Europa la media (a parità di potere d’acquisto) è di 2,1 euro di Pil per ogni risorsa consumata, contro 3,5 euro in Italia (+60%). Gli occupati del settore sono in tutto 519mila (secondo Paese in Europa dopo la Germania).

 

«La parte più interessante di questa crescita è che vede il centro-sud come protagonista, con nuovi impianti e investimenti in tutte le regioni», osserva Ciafani di Legambiente, citando gli impianti di digestione anaerobica per la produzione di biogas o biometano e compostaggio di Anzio e Pontinia nel Lazio, di Capaccio in Campania, di Erchie in Puglia, di Caltanissetta e Assoro in Sicilia. «Con l’integrazione allo sviluppo della filiera delle rinnovabili c’è davvero il potenziale di creare un triangolo industriale diffuso, sul modello di Milano-Torino-Genova degli anni Sessanta, ma a trazione meridionale».

Uno dei casi più suggestivi viene però dal Friuli, a San Giorgio di Nogaro, con l’impianto di I.Blu, una startup finanziata dalla multiutility Iren. Si tratta di un impianto per il riciclo di materie plastiche miste, le più complesse da processare in modo tradizionale. I.Blu ha invece trovato il modo di usarle per creare un nuovo polimero chiamato Blu, una materia prima seconda circolare che può essere usata in diversi settori ma soprattutto nelle acciaierie a forno elettrico, quelle che producono acciaio da rottami, in sostituzione del carbone, abbattendo del 30% le emissioni di CO2 relative alla produzione.

In questo modo, ogni 115mila tonnellate di rifiuti plastici vengono convertite in 40mila tonnellate di Blu Air, con l’orizzonte di aumentare la produzione nei prossimi anni, fino 600mila tonnellate l’anno.

Come spiega Chiara Di Mambro, «questo è interessante caso di simbiosi industriale, un prodotto di materia plastica che aiuta a decarbonizzare uno dei settori dove è più difficile abbattere le emissioni, attraverso un brevetto tutto italiano e partorito da un’azienda che si occupa di energia e rifiuti. L’Italia dei distretti e delle startup sta procedendo velocemente verso la transizione con idee e progetti, il problema è che in mancanza di un disegno strategico nazionale lo fa in maniera disaggregata».

 

 

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