Volge al termine aprile, il «mese più crudele» del poeta T.S Eliot, periodo denso di feste comandate che, confessionali o laiche che siano, trasformano il dibattito pubblico in un guazzabuglio di intolleranza e messa in questione dei valori fondativi della Repubblica e della democrazia.
In una cornice complessiva di narrazioni sempre più polarizzate, spazi di discussione egemonizzati da efferati attentatori al mestiere dello storico e un’attitudine sempre più spiccata a consumare queste commemorazioni in ritualità monotòne, il rapporto tra storia, memoria e futuro emerge prepotentemente.
In particolare, in Italia, per quella parte di cittadinanza che, a più livelli, si interroga su come attraversare la settimana della Festa della Liberazione e del Primo Maggio ricordando, festeggiando, celebrando, demistificando, salvaguardando, attualizzando quei due riquadri rossi del calendario.
In questi giorni di celebrazioni, è fondamentale tenere alta la consapevolezza di quanto possa essere superficiale attraversare queste giornate come mera ricorrenza e quanto sia invece importante la capacità di connetterle alle lotte reali che attraversano il paese, in una dialettica continua con la storia nazionale e globale.
Da piazza Haymarket, a Portella della Ginestra, dal Macrolotto di Prato a Bagnoli e Taranto, il Primo Maggio è memoria di sangue versato per nuovi diritti da conquistare – «otto ore di lavoro volevamo/a Chicago» – o strappato anzitempo, su posti di lavoro pericolosi, dove si lavora senza giorno di riposo, senza contratto, in un regime di ricatto e sopraffazione.
Per questo motivo, oggi, è importante spegnere le luci abbacinanti delle arene dell’odio e del revisionismo, cosicché torni visibile il filo rosso che connette più di un secolo di lavoratrici e lavoratori in lotta per migliorare le proprie condizioni di vita e disarticolare i rapporti di forza che caratterizza(va)no la loro condizione subalterna, per eleggere i propri rappresentanti e aprire gli adeguati spazi di conflitto nei confronti della controparte padronale. E, su tutti, per lavorare meno.
Rappresentanza e orario di lavoro, tra i molti elementi di continuità tra le lotte sul lavoro e contro il lavoro sfruttato, sono quelli che ci permettono di muoverci in questo esercizio di prospettiva di rewind & fast forward verso la lotta delle lavoratrici e dei lavoratori della GKN di Campi Bisenzio, da mesi punto di riferimento per la sinistra diffusa e radicale del paese.
Tra le lettrici e i lettori di questo contributo ci sarà qualcun* che avrà varcato i cancelli della fabbrica dell’automotive che resiste, che ha sventato 500 licenziamenti grazie alla mobilitazione dei territori e che ha trasformato una singola vertenza operaia in un’operazione di convergenza tra lotte sul lavoro, movimenti ecologisti, transfemministi, studenteschi.
La capacità organizzativa espressa da questi lavoratori non si improvvisa, è evidente.
«Lo ammettono candidamente i padroni: funziona così. Nel distretto di Prato funziona così. E se non lo sai, sei uno sprovveduto o sei complice. Se non agisci, o sei sprovveduto, o sei complice. O sei sprovveduto, o sei complice. O sei sprovveduto, o sei complice. Noi non saremo mai complici di simile ipocrisia.»
Così gli operai GKN di Campi Bisenzio commentavano, attraverso il loro profilo Facebook già attivo da anni, la morte della giovanissima operaia Luana d’Orazio, schiacciata dall’orditoio con i dispositivi di sicurezza bypassati a cui stava lavorando la mattina del 3 maggio 2021, in un’azienda del distretto tessile pratese. Nello stesso post, annunciavano un presidio di fronte alla fabbrica e un’iniziativa di auto-finanziamento a favore della famiglia della vittima.
Analisi precisa, retorica asciutta, celere organizzazione e solidarietà attiva affondano le proprie radici in un lavoro di costruzione e disseminazione continue di coscienza di classe all’interno della fabbrica, forte del patrimonio politico e culturale dell’ex stabilimento FIAT di Novoli e, allo stesso tempo, figlio della rottura (e risignificazione) con quella storia sociale e delle relazioni industriali.
Entrando nello stabilimento e fermandosi a parlare con qualche operaio al presidio, potrete ascoltare, tra le tante, una storia di lotta e di tempo sottratto al capitale, che getta luce sulle origini di un’organizzazione politica e sindacale di rara intelligenza nel panorama italiano. Una vertenza sull’orario di lavoro che getterà le basi per il futuro del repertorio di auto-organizzazione politica che all’oggi permette alla GKN di tenere vivo il largo campo di opposizione sociale che ha saputo far convergere sulla propria battaglia.
I primordi sono infatti da rintracciare nella frattura interna alla vecchia RSU, che si creò nel 2007 attorno al tema dell’introduzione del sabato e domenica lavorativi. Un momento di crisi della rappresentanza che si trasforma in un’occasione di svolta, per porre le basi di un nuovo modo di intendere l’azione e la rappresentanza sindacale e per iniziare a tracciare una carta immaginaria di principi fondamentali, irriducibili alle legittime differenze di vedute tra la forza-lavoro.
L’energico dissenso espresso dai lavoratori rispetto a quel possibile accordo produce di fatto la delegittimazione dell’organo di rappresentanza, nuove elezioni e l’avvio di una nuova fase, che sventa l’estensione dei giorni di lavoro nell’ambito della contrattazione di secondo livello.
Gli operai a distanza di anni rivendicano con quella scelta di riappropriazione di tempo e ne sottolineano l’importanza in termini di relazioni sociali ai fini del buon proseguimento della mobilitazione: «non siamo solo operai, siamo allenatori di calcio e di basket nelle squadre giovanili del nostro territorio, siamo genitori che vogliono prendersi cura della propria famiglia, siamo musicisti, teatranti, video-maker, siamo attivist* degli spazi sociali.
Ed è solo grazie al tempo liberato dal lavoro che abbiamo potuto essere parti attive delle nostre comunità e raccogliere il loro supporto durante i mesi della lotta; fossimo stati a lavorare su turni anche nei festivi, senza la possibilità di organizzarci, di parlare con le persone, di vivere un’esistenza altra oltre il lavoro, saremo stati molto più soli».
Questo nuovo corso ha condotto all’espansione degli spazi e delle figure della rappresentanza all’interno dello stabilimento fiorentino, mettendo a punto un modello di relazioni sindacali capace di sorvegliare il processo produttivo e mitigare le scelte spesse volte disorganizzate della direzione aziendale, grazie a un sapere operaio diffuso; allargare la rappresentanza e il supporto alle lavoratrici e ai lavoratori delle ditte in appalto, cancellando quanto meno nella pratica qualsiasi differenza tra addett* assunti direttamente da GKN e indotto; introdurre la figura del delegato di raccordo, un’ulteriore elemento di connessione tra forza-lavoro e RSU, per moltiplicare sia la consapevolezza delle problematiche in fabbrica, sia la capacità di organizzarsi e contrattare al rialzo.
Non ultimo, la nascita del Collettivo di Fabbrica, che emerge dall’esigenza dei lavoratori di confrontarsi e organizzarsi superando il singolo tesseramento alla sigla sindacale per approdare a una forma di rappresentanza diffusa, non scevra da tensioni, ma collettivamente concertata.
Il primo maggio nel segno della lotta della GKN non può che essere, dunque, una giornata di rimessa in discussione delle forme dell’organizzazione politica, guardando all’esempio della convergenza come orizzonte di possibilità per rompere dicotomie nocive (fame o fumo; sapere accademico o sapere operaio), così come una giornata di antiche e sempre attuali rivendicazioni. Come quella per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
I lavoratori GKN ci insegnano quanto sia stato lungimirante strappare tempo al profitto del padrone e restituirlo al riposo, agli hobby e alle passioni, all’ozio, all’organizzazione, al recupero del corpo e dello spirito per condurre un’esistenza degna.
Lavorare meno per avere più tempo per guardarsi attorno e saggiare lo stato dell’arte della società tutta e per prendere posizione, a partire dalla propria condizione di esistenza, per incontrare quella altrui. Lavorare meno per convergere, assumendo una prospettiva intersezionale, indispensabile per organizzare delle rivendicazioni plurali e incisive sui rapporti di forza che articolano le interdipendenze nella nostra società.
Lavorare meno per potersi soffermare a chiedere agli altri «come state?», ascoltarli e insieme costruire nuove strade di lotta.