Il 6 aprile 2009 un terremoto di magnitudo 6.3 disastroso ha colpito la città dell’Aquila. Il sisma ha interessato 75 comuni tra le province dell’Aquila, Teramo e Pescara. L’epicentro della scossa, durata 23 secondi, è stato Poggio di Roio, frazione dell’Aquila, con una profondità di circa 8,8 km. Il sisma ha ucciso 309 persone, causato 1.500 feriti, lo sfollamento di circa 80.000 persone e più o meno 30.000 senza tetto.

Il centro storico della città è stato immediatamente dichiarato zona rossa. Sono stati danneggiati più di 60.000 edifici dei quali 18.000 ritenuti inabitabili. Compromessi in modo significativo anche edifici dall’alto valore artistico e architettonico. Un lungo sciame sismico, iniziato già alla fine del 2008, aveva preceduto l’evento shock del 6 aprile, generando nella popolazione incertezza e sbandamento.

Il sisma ha determinato grandi trasformazioni nel tessuto sociale e in quello urbano. Per la prima volta dal terremoto di Messina nel 1908 è stato colpito un capoluogo di regione ma soprattutto un centro storico di notevole importanza per il suo prestigio architettonico e dal punto di vista identitario, nonché baricentro delle funzioni amministrative ed economiche; un polo istituzionale e burocratico per un complesso insieme di altri piccoli comuni limitrofi.

Difficilmente la città dell’Aquila ha potuto assecondare il naturale sviluppo urbanistico in quanto gli arresti e le riprese, dovute ad una importante storia sismica, hanno influito notevolmente sul percorso di crescita della città; le principali tappe della storia politico-economica e urbanistica della città si sono incrociate di continuo con la incessante storia sismica.

Il rapporto simbiotico, quasi intimo con il centro storico cittadino si è rotto violentemente nella notte del 6 aprile che ha affidato alle luci dell’alba una città in macerie. L’evento ha rappresentato a tutti gli effetti un arresto temporale alterando completamente la dimensione tempo. La città riappare, in tutta la sua devastazione e assediata dagli “estranei”. Gli abitanti raccontano di una città talmente colma di “divise” che era impossibile anche riconoscere gli stessi aquilani. L’immagine che emerge è quella di una città senza più punti di riferimento.

Emerge la segmentazione della comunità, in più luoghi e in più livelli.

Alcuni hanno scelto le tendopoli come abitazioni provvisorie, altri gli hotel sulla costa adriatica. Si è transitati, nel giro di poche ore, dalla certezza della propria casa all’incertezza del futuro e all’estraneità dei nuovi luoghi provvisori.

Nelle tendopoli sono emersi i confronti tra chi ha subito più o meno danni, fra chi voleva lasciare o abbandonare i “campi”, fra chi voleva accettare o rifiutare i vincoli e le strutture della vita precedente (Oliver-Smith e Hoffmann, 1999). E inoltre accusavano disagi dovuti alla condivisione di spazi ristretti e imposti dall’alto e una eccessiva promiscuità. Tali problematiche hanno creato negli aquilani un profondo senso di abbandono, impotenza, un malessere tale che li ha portati da un primo momento di forte coesione sociale e di mutuo-aiuto ad attimi di aggressività.

Negli hotel alcuni si sono sentiti del tutto emarginati, quasi deportati, forzatamente allontanati dagli altri cittadini, privati della solidarietà e del conforto reciproco. Qualcuno si è percepito come un povero a cui gli ospiti dei villaggi facevano l’elemosina. Tuttavia, parte degli aquilani hanno vissuto in maniera positiva quell’accoglienza avvertendo l’esigenza di fare gruppo con i compaesani per condividere lo sconforto. Dopo circa sei mesi, conclusa l’immediata emergenza, i terremotati hanno avuto la possibilità di trasferirsi nel Progetto C.A.S.E. (Complessi Antisismici ed Ecocompatibili) che intanto era stato costruito. La dis-locazione abitativa anche in questo caso ha alterato i rapporti con gli spazi e con i tempi del vivere quotidiano, nondimeno rimarcando le differenze di genere. Gli uomini risentono soprattutto della mancanza dello spazio pubblico, collettivo, esterno alla casa, abituati più delle donne a vivere la strada come luogo di aggregazione; le donne avvertono più disagio e smarrimento nello spazio interno delle nuove abitazioni.

Per i bambini la mappa urbana è la città post-sismica, i loro punti di riferimento sono e saranno le case puntellate, i cantieri, le transenne e le zone rosse. Tantomeno possono costruirsi una mappa diversa abitando le C.A.S.E perché spesso dispersivi e insicuri, non conoscono gli altri abitanti, mancano quindi rapporti di prossimità e solidarietà, non esiste una rete di vicinato che possa assicurare controllo sociale e mutuo supporto. Lo stesso senso di smarrimento, di spaesamento, emerge negli anziani, per cui era importante riunirsi all’interno delle proprie abitazioni ed hanno inevitabilmente smesso di farlo. La sistemazione nelle C.A.S.E. inibisce la ricostruzione di un luogo che si possa sentire “proprio”. Il terremoto ha negato la geografia e le diverse storie dei luoghi.

Gli eventi disastrosi diventano catalizzatori che mettono in luce crisi sociali più profonde e radicate, sia nel contesto locale che in quello più ampio, tra chi ne elabora le definizioni e le rappresentazioni e chi ne è soggetto, tra coloro che sono chiamati a gestire tali eventi e i destinatari degli interventi progettati.

Di conseguenza il concetto di disastro spesso diventa altamente politico in quanto i terremoti oltre a sviluppare dinamiche di fratture, di spaesamento, di perdite, hanno anche implicazioni di natura politica e sociale. È fondamentale in questo contesto andare a legare le azioni del microcosmo, composto da scelte individuali, al macrocosmo costituito da rapporti e processi tra individui, gruppi ed istituzioni, ognuno dei quali elabora con differenti politiche e modalità la risoluzione della catastrofe, pensate strategicamente e mediate dai rapporti di potere (Revet, 2011).

Un altro elemento va evidenziato: in questa zona, i terremoti si presentano sempre con la stessa modalità, cioè preceduti da lunghi sciami sismici, e i cittadini tendono a comportarsi sulla base delle esperienze passate in situazioni di pericolo. È la memoria delle persone che hanno vissuto il terremoto a svolgere un ruolo fondamentale, diventare uno strumento di prevenzione che, come sostiene Simone Valitutto “non si chiamava così, ma era leggende, racconti, miti e manutenzione e trasformazione dolce del paesaggio rurale e paesano” raccontando il terremoto irpino del 1980.

I disastri amplificano i processi sociali poiché destabilizzano ogni equilibrio, rompono la quotidianità, riarticolano i rapporti con i luoghi, con gli spazi, con la casa. La catastrofe impone la compresenza su uno stesso territorio di attori diversi, che producono visioni diverse che, interagendo, innescano dinamiche che di volta in volta possono vincolare o sostenere pratiche resilienti.

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