Università Roma Tre

Nel dibattito contemporaneo l’uso di polarità concettuali come fascismo/antifascismo, sovranismo/anti-sovranismo, populismo/anti-populismo, razzismo/anti-razzismo indicano sintomi che rimandano sempre a qualcosa d’altro, cioè a fenomeni politici, sociali e culturali più complessi, profondi e “rimossi” dall’ordine discorsivo dialettico, binario e strutturato per opposizione (C. Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti, 1974; M. Foucault, L’ordine del discorso, 1972).

Riprendendo le argomentazioni di David Bidussa a proposito della necessità di pensare questo tempo a partire dal “linguaggio che riscopre la violenza come linguaggio politico” e facendo luce anche sulle trasformazioni sociologiche ed antropologiche, tenterò di fornire degli elementi di riflessione partendo da una considerazione di metodo. Faccio degli esempi che considero anche dei punti di domanda: Orban in Europa, Salvini in Italia, Trump negli Stati Uniti, altri casi in America Latina possiamo sbrigativamente rubricarli come neofascismi, neosovranismi e neonazionalismi senza tener conto della grande contraddizione da cui provengono, ovvero il fallimento di un’idea di libertà interamente affidata al mercato che non ha retto sul piano del disagio sociale? Questa malattia terminale della democrazia non è, forse, solo un esito protezionista e conservatore del progetto neoliberale e neoliberista ideato da von Hayek e dai cosiddetti “Chicago Boys”, come ha brillantemente scritto di recente Massimo De Carolis? (Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà, 2017). Trattasi davvero di neofascismo o solo di “autoritarismo illiberale” formalmente protetto e legittimato dalla fantasmatica, eppure ancora viva, democrazia rappresentativa? Le “democrazie murate” contemporanee sono oscene, ma come mai nessuno ha impedito a Orban in Europa e a Trump negli Stati Uniti di ergere quei muri? Il termine “populismo” di cui si fa largo uso oggi non è forse solo l’esito e l’effetto di una scomposizione del demos e della rottura del patto tra cittadinanza e lavoro cominciato già con le prime avvisaglie della crisi del Welfare alla fine dei Settanta? Più che di “popolo” e del suo rovescio negativo oggi dovremmo parlare di “qualunquismo” – come giustamente sottolinea Bidussa – ma anche di “gentismo” – come ci ricorda Leonardo Bianchi – e persino di Io-centrismo o di Io-crazia (Lacan, ad esempio, usava questo termine già dai primi anni Settanta) all’interno di un mutamento di scala segnato dalla rivoluzione digitale e dal sistema della connessione globale.

E quando parliamo di razzismo oggi, come giustamente fa anche Ezio Mauro (L’uomo bianco, 2017) e molti altri autorevoli autori, perché dimentichiamo che non si tratta certo di un fenomeno nuovo o rimuoviamo la sua parentela storica con il sessismo? Traini, ad esempio, da cui lo stesso Mauro prende le mosse, non ha sparato solo in nome della “Patria”, ma anche e soprattutto per “vendicare” una donna assassinata, Pamela, una ragazza bianca. Gli identitarismi da cui il razzismo, i sovranismi e i neo-nazionalismi muovono i loro “ordini discorsivi” oggi sono sindrome e sintomo, un effetto perverso che viene da lontano. Infatti, se non adottiamo una prospettiva genealogica rischiamo di far apparire come nuovi fenomeni che ci sono sempre stati, seppure in contesti storici e sociali diversi da quelli del presente, de-responsabilizzandoci o, peggio, rimuovendo gli istinti profondi che gli stessi “identitarismi” rimettono in circolo. Se a tutto questo aggiungiamo anche gli effetti della crisi economica sulla vita concreta e reale di moltissime persone, oltre che la progressiva de-culturazione di massa avallata dal web (fake news, lettura sbrigativa solo dei titoli degli articoli, esigenza compulsiva di dire sempre la propria entrando nel circolo delle opinioni a scapito della conoscenza ecc.) e dalla fine delle ideologie, il dado è tratto: risentimento e costruzione fittizia del capro espiatorio che, guarda caso, è sempre l’Altro o l’Altra; desiderio di vendetta e di una rabbia generalizzata veicolata in modo irrazionale. Nessuno stupore, insomma. Tutto spiegabile. Ciononostante un pezzo del caleidoscopio costruito su base dialettica e talvolta astratta manca sempre: è il ruolo svolto dal corpo femminile, centrale tanto quanto rimosso.

Nel 2006, Elsa Dorlin, collega e amica francese, pubblicava un libro importantissimo mai tradotto in Italia dal titolo piuttosto esplicativo La matrice de la race. Généalogie sexuelle e coloniale de la nation française. Pur trattandosi di un lavoro specifico sulla nascita del mito della nazione francese, di fatto la sua è una narrazione applicabile simbolicamente ad ogni Stato dell’UE che ha avuto una storia coloniale. La nazione, infatti, a differenza della sovranità, rimanda alla costituzione demografica di uno Stato, alla sua dimensione riproduttiva e, dunque, anche al ruolo svolto dalla sessualità e dal femminile nella costituzione del demos, così come del desiderio di supremazia sulle popolazioni colonizzate, gli “stranieri”. Qualcosa di più profondo della mera decisione di ergere o meno dei confini territoriali: infatti non c’è Stato senza nazione e non v’è sovranità senza nazione, almeno a partire dalla modernità. Tornando molto indietro, ad esempio, ci accorgiamo che fin dagli albori della nascita del demos e del cratos  nella Grecia Antica, da cui discende il termine democrazia, la costituzione della sfera pubblica e della cittadinanza escludeva dalla scena le donne e gli stranieri. Spostandoci su uno scenario distopico o, come ci indica Margaret Atwood, sul fronte del “paradosso del già reale” ci accorgiamo che molta produzione discorsiva legata al mito della nazione rimette di nuovo al centro, frustrandola, punendola e strumentalizzandola,  la sessualità e la funzione riproduttiva delle donne. Sul fronte letterario basta leggere la trilogia dell’Adamo Pazzo della stessa Atwood, o vedere l’ormai famosissima serie TV che ne è stata tratta, The Handmaide’s Tale. In sintesi, indagando ogni latitudine spaziale e ogni arco temporale, in ogni nuances di costituzione del demos o molto più semplicemente di produzione di narrazioni che mirano a costruire il consenso e  ad annettere l’opinione pubblica, non v’è mai parola razzista senza un riferimento sessista. Un nesso, talvolta persino agito al contrario, ovvero sull’inclusione anziché sull’esclusione, un “sessismo democratico” – come nominato altrove –  che dovrebbe spaventarci tanto quanto la costruzione di un muro.

Perché stupirsi solo ora del gesto estremo di Traini, vendicatore solitario di una donna “autoctona” avvolto dal tricolore, se fin dall’inizio degli anni Duemila l’intera narrazione politica si costruiva sul “securitarismo” inteso come ordine pubblico, anziché sulla domanda di sicurezza sociale? Una forma onnipervasiva di costruzione del consenso politico che faceva e fa leva sulla paura del “diverso” costruendo e cavalcando l’onda di irrazionali “allarmi sociali”. Come già scritto altrove (si rimanda a A. Simone, I corpi del reato. Sessualità e sicurezza nelle società del rischio, 2010) molti fatti di cronaca, come l’omicidio di Giovanna Reggiani a Tor di Quinto a cui fece immediatamente seguito l’invio delle ruspe nel campo Rom, o come lo stupro alla Caffarella che vide il coinvolgimento, risultato poi sbagliato, di due uomini provenienti da paesi extra-europei e tanti altri eventi che poi produssero anche molta decretazione d’urgenza interamente costruita sull’idea di “proteggere le nostre donne dagli stranieri”, sino al caso Traini passando per i fatti di Colonia sono stati narrati usando strumentalmente le donne per legittimare politiche di stampo razzista. D’altronde, non era poi tanto diverso, quando tra fine Ottocento e inizi del Novecento si andavano strutturando le primissime forme di narrazione sessista e razzista attraverso la criminologia positiva di Cesare Lombroso, si pensi ad opere come “L’uomo delinquente” (spesso meridionale immigrato) o il cospicuo e spaventoso trattato su “La donna delinquente, la prostituta e la donna normale”. Tutto questo rimosso, che è a sua volta un sintomo, va reindagato a fondo nelle forme discorsive contemporanee e le ragioni sono almeno due: non v’è abuso di potere al mondo che non si costituisca anche a partire dalla sessualità, maschile o femminile che sia; non v’è possibilità alcuna di ripensare un “noi” senza rimettere in discussione la relazione, a partire da quella tra i sessi. Senza la relazione, senza la possibilità di reinventare il legame sociale, non ci restano che le paure. Quel lato oscuro che oggi pervade il linguaggio, la società, l’antropologia sino a generare una sorta di generalizzato “buio nella mente”.

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