Università degli Studi di Urbino

Terza e ultima parte degli articoli L’alternativa fra destra e sinistra, L’alternativa fra reazionari e progressisti


 

Le due anime inscindibili di una proposta politica moderna sono il “per chi” e “contro chi” si combatte: così, anche e soprattutto nell’Alt-right, la costruzione del popolo corre parallela alla costruzione del “nemico”. Destra e sinistra si tenevano in piedi finché al di sotto di queste categorie politiche veniva più o meno implicitamente sotteso un riferimento sociale: per esempio “i padroni” e “i lavoratori” o almeno delle parti sociali (“confindustria e i sindacati”). Lentamente alle basi sociali si sono sostituite le etichette politiche fino ad arrivare allo scontro ben sintetizzato da Nancy Fraser come: populismo reazionario (quello dell’alt-right appunto) vs. neoliberismo progressista (un grande centro composto da centrodestra moderato cosmopolita e centrosinistra filocapitalista ma attento a temi quale quello dei diritti civili). È questo lo scontro che è andato in scena durante le elezioni presidenziali statunitensi nel 2016 e quelle francesi del 2017.

L’Alt-right negli anni ha costruito solidi riferimenti sociali (il ceto medio arrabbiato innanzitutto, particolarmente fra i cosiddetti WASP nel caso americano ecc.), indicando altrettanti precisi nemici: le élites sovranazionali (europee all’uopo) e gli immigrati come fattore di rischio per motivi culturali (di perdita delle radici valoriali nazionali) e sociali (la necessità di spartizione di welfare, lavoro e risorse fra un numero crescente di individui alcuni dei quali considerati privi di cittadinanza). Funzionalmente a questo, ha propagandato il superamento della dicotomia destra-sinistra. Nella trama della ri-significazione di categorie politiche e riferimenti sociali è rimasta impigliata la sinistra. Quest’ultima ha adottato come proprio nemico non un attore materiale o sociale ma un’altra categoria politica, per altro difficile e complessa, come quella del populismo. Cominciando con l’accettare tutti gli assunti fondamentali della globalizzazione del Washington Consensus, ha sposato la visione del there is no alternative di tatcheriana memoria, congelando ogni possibilità di proporre riforme strutturali di merito nel funzionamento del capitalismo. Escluso il campo delle policies alternative, lo spazio di manovra rimasto quindi nel “per chi” ci si batte è stato confinato alle forme e al mantenimento di volta in volta di situazioni più che di posizioni politiche: il fronte repubblicano nel caso francese, la stabilità e la governabilità nel caso italiano, la fiducia dei mercati nel caso inglese ecc. In questo senso si è andato originando uno scontro fra il polo della “democrazia formale” – quello appena descritto – e quello della “democrazia sostanziale” invaso pressoché dovunque dall’alt-right e dalla sua rivendicazione di opporre la volontà popolare (sempre utilizzando questa compressione e finzione) alla volontà delle tecnocrazie, dei mercati, della finanza.

Tuttavia, che effettivamente l’interesse, ad esempio, degli investitori finanziari non fosse necessariamente l’interesse dei cittadini di un determinato luogo o di una parte anche consistente di essi, è storicamente stato un punto caratterizzante delle battaglie socialiste e socialdemocratiche. La contrapposizione fra interessi economici oligarchici e interessi sociali diffusi era un tema caratterizzante al fine di costruire una democrazia a forte protagonismo dei lavoratori e dei ceti popolari. Da un punto di vista antitetico, è stato anche il tema del rapporto The Crisis of Democracy: On the Governability of Democracies del 1975 della Trilateral Commission, che sosteneva che le democrazie del primo mondo in quegli anni stessero affrontando una crisi dovuta ad un eccesso di istanze che provenivano dai cittadini, fino al sovraccarico del sistema politico; in questo senso, l’unico modo per uscire da tale crisi era secondo gli autori incoraggiare l’apatia e la minore partecipazione democratica. Curiosamente, proprio l’alt-right che ha fatto dello scontro di civiltà (il cui autore della tesi fu anche autore del rapporto della Trilateral, Samuel P. Huntington) il fondamento della propria proposta, si pone su questo tema in antitesi con la destra tradizionale liberale che tendeva a considerare la sfera pubblica un affare per pochi. Infatti, le nuove destre hanno con successo fatto proprio l’invito opposto a quello auspicato da Huntington e colleghi: cioè quello alla massima partecipazione; una partecipazione di tipo plebiscitario e per lo più di contestazione ma con forti elementi mobilitativi. La partecipazione popolare è insomma divenuta essa stessa un elemento di contesa e non un dato acquisito del sistema che lasciasse spazio alla successiva discussione fra parti opposte sul “che fare” una volta raggiunto il Governo per tramite di essa. Per offrire un esempio, non è la stessa cosa entrare in dialettica con le regole europee per chiedere flessibilità sui conti pubblici di uno Stato membro e poi usare la maggiore spesa pubblica per costruire o mantenere ospedali oppure farlo per pagare i paesi della sponda sud del Mediterraneo per trattenere i migranti sulle proprie coste in condizioni umanitarie discutibili. Nella scelta del “che fare” si rianimano la sinistra e la destra, ma le forze politiche sembrano sempre meno interessate a coinvolgere gli elettori in questa discussione.

Non è un caso che movimenti e forze politiche che non solo hanno rivisto profondamente le policies proposte in rapporto alla globalizzazione, ma anche le proprie modalità di fare politica, aprendole proprio al tema di una più significativa e incisiva partecipazione popolare, abbiano ricevuto risultati positivi inaspettati. Alle elezioni presidenziali del 2017 la forza più votata da coloro che dichiarano di non sentirsi né di destra né di sinistra non è stata il Front National, ma La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon.

Comizio della Lega. Milano, 2017

A Margate, dopo lo straordinario risultato dell’Ukip nel 2015 e il contestuale pessimo risultato del Labour, nel 2017 l’Ukip perde 10mila voti, i conservatori rivincono il seggio guadagnandone 4000, mentre il Labour raddoppia i suoi consensi dagli 8,5mila di due anni prima a 16,5mila, confermando il trend crescente per i laburisti che li porterà, sotto la guida di Jeremy Corbyn, al picco più alto mai raggiunto.

Non è quindi infondata l’affermazione di De Benoist che le identità di destra e sinistra siano sgretolate e che vengano usate per richiamare ad un voto di appartenenza ormai tramontato. Egli sostiene che “Nel mondo politico, la teatralizzazione della divisione e del confronto tra destra e sinistra mira infatti soprattutto a mascherare la convergenza dei due campi, lei cui identità si sono sgretolate” ma non ha altrettanto ragione nell’affermare che vi sia una convergenza dei due campi: mai come oggi, nel mondo più diseguale di sempre, i due campi sono socialmente chiaramente distinti fra chi ha troppo e chi ha troppo poco, fra chi aspira alla giustizia sociale e chi al mantenimento dello status quo. È la politica – in particolare la politica di sinistra – che troppo spesso rifiuta di prenderne atto, chiusa nei suoi riti stanchi, avvitata nelle liturgie di passate ideologie mai sostituite da quelle nuove e prigioniera dell’interregno dove, come sosteneva Antonio Gramsci, il vecchio muore, il nuovo non nasce e si verificano i fenomeni morbosi più svariati.

Condividi
La Fondazione ti consiglia
pagina 41679\