Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Per quanto oggi possa sembrare paradossale c’è stato un momento in cui l’ascesa al governo del partito islamista Giustizia e Sviluppo (AKP) di Erdogan era apparso a molti, dentro e fuori la Turchia, come un’occasione di democratizzazione della società e della politica turche. Il fondatore della Turchia moderna, Kemal, aveva impostato un processo di modernizzazione e occidentalizzazione dall’alto dai tratti fortemente autoritari ed aveva lasciato a guardia di questo processo l’esercito, in qualità di garante della costituzione e della laicità dello Stato. Un esercito che da allora ha sempre avuto un costume fortemente interventista. Non bisogna dimenticare che l’ultimo golpe riuscito risale al 1997, quando venne rovesciato il governo islamista di Erbakan, padrino politico dell’attuale presidente turco.

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Ci sono state due fasi nella politica di Erdogan: la prima caratterizzata dall’apertura e da una politica estera improntata alla massima “zero problemi con i vicini”. La seconda caratterizzata dalla repressione delle manifestazioni di Gezi Park, la convergenza con gli apparati dello Stato in funzione anti-curda e l’inversione polare della politica estera che ha incrinato i rapporti tra la Turchia e tutti i suoi principali vicini fino al punto di trasformare la penisola anatolica nel retrovia strategico dei gruppi jihadisti che operano in Siria. Una politica che ha portato Ankara a un passo dalla guerra con Siria, Iran e Russia. Una politica che ha sottoposto a tensione la relazione con gli Stati Uniti e con gli alleati europei. Ma l’appoggio agli elementi islamisti radicali e jihadisti ha anche avuto un forte impatto sulla politica interna provocando una radicalizzazione in alcuni settori della società turca e tensioni che nel corso dell’anno appena trascorso hanno proiettato le ombre di una strategia stragista tramite una serie di attentati che hanno scosso il paese.

Da alcuni mesi la stampa internazionale richiamava l’attenzione su un possibile intervento dei militari nella vita pubblica, tanto da spingere l’esercito ad esprimere pubblicamente una smentita e da mettere in guardia contro “catene di comando estranee alla gerarchia istituzionale delle forze armate”. Era forse già in corso un ulteriore cambio di direzione della politica turca, quando il paese ha assistito per alcune ore all’ennesimo tentativo di golpe. Spetterà agli storici del futuro portare alla luce le molte zone di ombra che hanno caratterizzato la notte più lunga della democrazia turca.

Probabilmente i golpisti pensavano di approfittare di un momento di debolezza del presidente, impegnato nell’ennesima giravolta, per arrivare alla resa dei conti sperando che i partner occidentali, posti di fronte al fatto compiuto, avrebbero alla fine capito le ragioni dei congiurati. Ciò che appare probabile, alla luce della stessa dinamica caotica del tentato golpe è che una parte dei vertici militari coinvolti nella congiura si siano a un certo punto tirati indietro, restando con il fucile al piede e salvando così le sorti del governo.

Oggi Erdogan sembra più forte. Durante le tragiche ore del golpe ha incassato anche il sostegno dell’opposizione parlamentare, che ha fatto quadrato, nonostante tutto, attorno al governo. Ma l’opposizione democratica deve oggi fare i conti con una versione dell’islam politico che è incline ad utilizzare gli spazi democratici per affermarsi ma che ha la forte tentazione di restringerli per definire un nuovo ordine istituzionale disegnato a sua immagine e somiglianza. Ora il governo approfitta di quanto accaduto per decapitare gli apparati dello stato meno fedeli o meno allineati in modo rude e brutale, sulla base di liste stilate con ogni probabilità da molto tempo. Ma alcuni elementi suggeriscono che forse la forza di Erdogan è più apparente che reale. Sia perché i problemi che sono alla base della crisi sono tutt’altro che risolti e la Turchia prende una rotta di cui non si intravede l’approdo, con la politica estera da ripensare e il rapporto con gli ambienti jihadisti da rivedere. Sul fronte internazionale oggi Erdogan appare davvero isolato, sono vicini allo zero i rapporti con i partner tradizionali di Ankara e non ancora distesi quelli con paesi a cui fino a poco tempo prima ha fatto guerra per procura. Secondariamente se si è salvato grazie all’atteggiamento di alcuni settori delle forze armate e degli apparati dello stato, deve qualcosa ai suoi salvatori: è una sorta di sovrano prigioniero. E prigioniera è la democrazia turca, in una partita che si gioca molto lontano dai tradizionali processi democratici, a prescindere dal grado di consenso di cui l’AKP gode ancora. La Turchia resta così sulla soglia dell’Europa ma l’ombra che proietta la sua crisi è già dentro l’Europa. E’ palpabile nella pericolosa accondiscendenza con cui da più parti di ventila la necessità di ricorrere a “stati d’eccezione” e anche alla limitazione delle libertà civili più elementari per rispondere a molteplici sfide (il terrorismo, il nemico esterno, il nemico interno). Da che mondo e mondo nessuno ha mai svuotato la democrazia e i principi della convivenza civile palesando disegni autoritari. Ma ricorrendo sempre al pretesto di difendere la democrazia e spesso persino la libertà che si apprestava a calpestare. La Turchia è in fondo un monito. A non dare per scontato che i fantasmi del passato non possano tornare, anche se sotto vesti nuove. A non dare per scontato che il livello di convivenza civile che abbiamo pazientemente costruito in questi ultimi decenni non possa essere travolto dalla crisi e dall’opportunistica tolleranza verso fenomeni pericolosi e tentazione insane.

Spartaco Puttini
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

21/07/2016

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