Era il sogno di Ford e di Taylor, così come oggi sembra esserlo di Ryanair e di Foodora: indebolire il sindacato ed evitare la democrazia nelle imprese. Tesi e tendenza ben riassunta da un neoliberale tedesco come Wilhelm Röpke: «L’imprenditore può paragonarsi a un navigatore (…). Sarà ragionevole, da parte dell’equipaggio di non accampare richieste di ‘partecipare alle decisioni’ o di ‘democratizzazione’ della guida della nave. La democrazia qui è fuori luogo, come nella sala operatoria. La vera democrazia economica sta altrove e cioè sul mercato, dove sono i consumatori ad essere gli elettori»1.
Tesi surreale e falsa (l’impresa non è una sala operatoria e gli elettori/consumatori, cioè la domanda, sono sempre prodotti dall’offerta – a questo serve il marketing – e quindi il mercato non è mai democratico in sé); e che soprattutto contraddice uno dei fondamenti dello stato di diritto (liberale): il bilanciamento e il controllo reciproco dei poteri (anche nell’impresa). Ma questa è l’essenza e la ragione di ciò che definiamo tecno-capitalismo2.
Ma oggi quel sogno si realizza grazie alla tecnica intesa come sistema di macchine/apparati, sempre più convergenti tra loro. Facendoci passare non dal vecchio e pesante fordismo a un leggero, virtuoso e flessibile post-fordismo (come troppo ingenuamente si è sostenuto), ma dal fordismo concentrato nelle fabbriche chiuse da quattro mura del ‘900 – perché questo permetteva allora il mezzo di produzione/connessione, cioè la catena di montaggio (che resiste anche oggi, rinominata come World Class Manufacturing) – al fordismo individualizzato ed esternalizzato di oggi, dove il vero mezzo di produzione/connessione è una piattaforma (Amazon, Uber, Foodora, ecc.), trasformando la rete nella nuova Fabbrica-rete.
Non la Fabbrica 4.0, ma la Fabbrica-rete dove ciascuno è messo al lavoro incessantemente e a produttività crescente, sia nel lavoro di produzione e di consumo h24, sia nel lavoro (gratuito) che svolge quando naviga e condivide in rete lasciando i suoi dati e i suoi profili che diventano profitto privato per i signori del silicio3.
È quindi la rete-piattaforma come sistema tecnico che ha permesso di scomporre e di flessibilizzare ancora di più la struttura organizzativa delle imprese rispetto al just in time del modello-Toyota degli anni ’70; e di passare dal lavoro/diritto (pesante, ma stabilizzato) al lavoro/merce di oggi. Lavoro a chiamata o altrimenti definito on demand o lavoro in deroga (dai diritti e dalla dignità), ancora più pesante di ieri, ma oggi accettato/subìto nel segno disciplinare – tecnico e neoliberale – del: non ci sono alternative. Un lavoro uberizzato e sempre più low cost grazie alla messa in competizione tra loro (ancora il neoliberalismo) dei lavoratori. Che si devono però credere imprenditori di se stessi o micro-capitalisti liberi e indipendenti – come ha sentenziato (in perfetto formalismo giuridico e funzionale ortodossia neoliberale, rinunciando a capire le nuove forme tecniche di organizzazione del lavoro) il Tribunale di Torino contro i riders di Foodora.
Qualcuno chiama tutto questo: innovazione che non si può e non si deve fermare. Oppure – ancora i neoliberali – dice che l’uomo e la società devono sempre adattarsi alle trasformazioni richieste/imposte dall’economia di mercato e dalla divisione del lavoro. Ed è ciò che appunto è accaduto, dal Pacchetto Treu al JobsAct, destra e sinistra sempre fraintendendo la vera natura della tecnica – che non è neutra(le), ma di parte: quella del profitto capitalistico e soprattutto dell’accrescimento del proprio potere di apparato.
Battersea Power Station di Londra, antica sede della centrale elettrica.
Nel 2021 diventerà una sede di Apple
Tutto questo significa però non governare i processi tecnici e capitalistici – sbilanciando pericolosamente la struttura dello stato di diritto e negando la democrazia. Processi che infatti – se non governati dal demos – sostituiscono progressivamente le proprie forme e norme tecniche e di mercato alle forme sociali e democratiche4), producendo – oltre a quelle marxiane, oggi replicate nei lavoratori autonomi ma dipendenti dalle piattaforme – nuove forme di alienazione: del demos dalla sovranità e degli uomini dalla possibilità/capacità di mutare le cose, perché sempre più chiusi nella gabbia d’acciaio weberiana (oggi virtuale), presi da un determinismo tecnologico integralista, illiberale e soprattutto anti-democratico, ma dal forte e affascinante inprinting5. Utile allora richiamare – soprattutto per la sinistra, o quello che ne resta (poco), ma anche per il sindacato – un pensiero del filosofo Salvatore Veca6: No Innovation without Representation (and Participation).
Perché se la Fabbrica oggi si chiama rete, allora occorre portare la democrazia oltre i suoi cancelli virtuali. Non solo contrattando gli algoritmi (sarebbe un mero re-agire, a valle), ma appunto governando democraticamente (risalendo a monte) i processi tecnici (e non solo capitalistici) che li generano e impongono.
1 W. Röpke (1974), Scritti liberali, Sansoni, Firenze, pag. 160
2 L. Demichelis, La religione tecno-capitalista, Mimesis, Milano, 2015; Id. (2017), Sociologia della tecnica e del capitalismo, FrancoAngeli, Milano
3 E. Morozov (2016), Silicon Valley: i signori del silicio, Codice, Torino
4 G. Anders (2003), L’uomo è antiquato, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino; J. Ellul (2009), Il sistema tecnico, Jaca Book, Milano
5 F. Chicchi – A. Simone (2017), La società della prestazione, Ediesse, Roma
6 S. Veca (2018), Il senso della possibilità, Feltrinelli, Milano