Il 24 settembre 2016 il presidente Barack Obama ha inaugurato a Washington D.C il National Museum of African American History and Culture, che si aggiunge agli altri musei dello Smithsonian Institution presenti nella capitale degli Stati Uniti. L’apertura al pubblico dell’installazione, sorta con l’obiettivo di rileggere la storia nazionale “attraverso un’ottica afroamericana”, raccontando la partecipazione degli afroamericani a numerosi settori della vita politica, sociale e culturale, si inseriva in un contesto di incidenti e aggressioni a sfondo razziale che, come riportato per mesi sugli organi di stampa, avevano spesso avuto per oggetto il movimento Black Lives Matter, che denuncia e combatte discriminazioni, violenze e razzismo nei confronti della comunità dei neri d’America. Il nuovo spazio espositivo, salutato come un primo importante riconoscimento pubblico, potrà contribuire al processo di piena integrazione di questa minoranza?
National Museum of African American History and Culture
Nel maggio 2017 è stata aperta a Bruxelles – in un periodo assai difficile per l’Unione europea – l’esposizione permanente della Maison d’histoire européenne, dopo molti anni di lavoro e un ingente finanziamento. Il nuovo museo riuscirà a concorrere alla costruzione di una storia comune del continente, in cui tutti possano riconoscersi?
Nell’ottobre 2014 è stato aperto a Varsavia Polin. Museo della storia degli ebrei polacchi, che intende presentare al visitatore un percorso espositivo in cui la storia degli ebrei in Polonia è integrata con la storia nazionale, in un momento in cui gli studiosi della Shoah, che hanno messo in rilievo la partecipazione dei polacchi al genocidio ebraico, sono messi sotto attacco e minacciati.
Polin. Museo della storia degli ebrei polacchi
Sono questi tre esempi, fra i tanti possibili, della dimensione e del ruolo pubblico di musei che trattano e espongono temi di storia al centro di conflitti, che si pongono l’obiettivo di sensibilizzare un pubblico più ampio, nonché di proporre una rappresentazione del passato che possa essere in grado di modificare e apportare cambiamenti nell’opinione pubblica e nelle nuove generazioni.
Già dall’inizio del XIX secolo le esposizioni sono state l’occasione per gli storici di lavorare con gli “oggetti” e dare un contributo alla valorizzazione del patrimonio culturale. La Public History fin dalla sua nascita, negli anni ’70, è andata interessandosi di mostre e musei come uno degli oggetti precipui delle sue pratiche; e oggi si può certamente constatare – anche a partire dagli esempi sopra menzionati – che l’attenzione per questo tipo di narrazioni nello spazio pubblico è senza dubbio in crescita.
Diversi sono i motivi. Innanzitutto la pluralità dei linguaggi comunicativi che un’esposizione (permanente o temporanea che sia) mette in atto: vi si trovano solitamente oggetti e documenti scritti (in copia o originale), rappresentazioni artistiche, riproduzioni e ricostruzioni e – per l’epoca più recente – fotografie, materiale audio/video, spesso “messi in mostra” attraverso l’uso sapiente di strumenti multimediali e effetti speciali che riescono a valorizzare le fonti storiche.
Proprio grazie alla pluralità dei linguaggi ed alla possibilità di un confronto diretto con i documenti storici – quale che sia il loro medium – le mostre possono attrarre nuove audiences, nuovi pubblici più restii ad essere intercettati, con una finalità didattica e educativa a una scala più larga rispetto ai libri specialistici.
«Che cosa può fare la Public History per i musei? E che cosa i musei possono fare per la Public History?», si è chiesta di recente Ilaria Porciani («Memoria e Ricerca», 1/2017). Indagare il loro rapporto e le interconnessioni tra queste diverse tipologie di trasmissione del sapere storico aiuta non solo a meglio comprendere il ruolo dello storico che opera nello spazio pubblico – una delle molte declinazioni e definizioni del Public Historian, ma anche di quali competenze ha bisogno per svolgere la propria attività in questo ambito.
In anni più recenti la forma museo ha subito profonde trasformazioni grazie alle nuove tecnologie e agli strumenti multimediali che hanno moltiplicato e ampliato la possibilità di utilizzo dei materiali, li hanno resi più fruibili e indotto anche a ripensare lo spazio museale in quanto tale, a partire dall’esperienza dei musei diffusi e alle esposizioni online, visitabili dal proprio computer. La forte espansione del settore a cui oggi si assiste, può dare nuovi sbocchi occupazionali ai giovani interessati alla storia, fuori dal percorso dell’insegnamento a scuola o della ricerca e della didattica all’università.
Una forte attenzione per le fonti storiche, una buona dose di creatività e una attitudine al dialogo, sono certamente elementi essenziali per chi voglia avvicinarsi a queste esperienza professionale, poiché, come ci ricorda Jay Winter a partire dalla sua collaborazione al progetto sullo Historial de la Grande Guerre, a Péronne in Francia, «creare un museo, o una mostra, o una serie televisiva, non può essere mai un one-man show». All’interno di un progetto espositivo o museale, quindi, il Public Historian dotato di una formazione multidisciplinare, deve potere e sapere dialogare in modo fruttuoso con gli altri professionisti, portatori di altre competenze (museologi, architetti, allestitori, video e filmmaker, grafici e così via) senza la pretesa di sostituirsi ad essi.
È attraverso un confronto dinamico che si arriva alla rappresentazione di un percorso espositivo – che è sempre frutto di un lavoro collettivo – in grado di tornare a interrogare eventi del passato alla luce delle domande del presente, con l’obiettivo di riavvicinare la cittadinanza allo studio e all’utilità della storia.