Giornalista e scrittore
Estratto dall’eBook, Public History. La storia contemporanea, a cura di Valentina Colombi e Giovanni Sanicola, pubblicato per la collana Utopie da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. 

L’11 gennaio 1993 il parroco della chiesa di San Giorgio a Ragusa vecchia convocò una grande messa in suffragio delle vittime del terremoto che trecento anni prima aveva distrutto una delle città più belle della Sicilia, sterminando metà della popolazione. Fu un momento particolarmente interessante. Il parroco aveva deciso di utilizzare il grande organo barocco della chiesa per rievocare quell’esperienza. Era un organo talmente raffinato da poter imitare e riprodurre i suoni della natura, dal rombo dei tuoni al cinguettio degli uccelli. Un organo gigantesco, nella pancia del quale entrai salendo delle ripidissime scale a chiocciola e che mi diede l’impressione di ritrovarmi nella sala macchine di un vecchio piroscafo.

Nel bel mezzo della messa, il parroco dette il compito all’organista di ricreare il frastuono del terremoto. Lo stesso ruggito che trecento anni prima era risuonato in quei luoghi investì improvvisamente i fedeli. L’onda emotiva fu impressionante, qualcuno addirittura svenne per lo spavento. Eppure il terremoto era qualcosa che sfuggiva alla loro memoria, potevano al massimo averne sentito parlare dai nonni dei nonni. Si trattò, insomma, di una geniale operazione evocativa: l’organista riuscì a risvegliare la voce del profondo. Lì, in una chiesa cattolica, era come avere dinanzi a noi la dea Persefone in persona che stava tuonando.

Poco tempo dopo, proseguendo la mia escursione siciliana alla ricerca della memoria dei sismi, raggiunsi un altro paesino nei pressi di Caltagirone, dove il terremoto veniva rievocato attraverso una rappresentazione quasi teatrale all’interno della chiesa. A un certo punto, a un cenno del prete, i fedeli presero infatti ad agitarsi sulle sedie che scricchiolavano e ondeggiavano, imitando perfettamente il terremoto. In questa chiesa, l’evento veniva riprodotto ogni anno, non solo nella data precisa, ma esattamente all’ora in cui la terra aveva tremato. La rappresentazione culminava nel momento in cui le chiavi di casa di ciascuna persona venivano gettate violentemente a terra, provocando l’immediato arresto di quest’oscillazione scricchiolante che aveva riempito la chiesa di uno stridio pazzesco.


Ragusa, Chiesa di San Giorgio

 

Ho riflettuto molto su questa esperienza perché, pensando al più recente terremoto dell’Aquila, mi sono reso conto che gli aquilani, e in genere gli abitanti dell’Appennino centrale, si erano completamente dimenticati di vivere in un paese sismico. Mi sono quindi chiesto come fosse possibile. Viviamo in una realtà scientifica, una realtà che ci informa, ci bombarda di notizie. Eppure abbiamo dimenticato tutto questo. Non sarà che gli abitanti della vecchia Sicilia, carica di pregiudizi e di rappresentazioni piuttosto pagane, avesse di questo evento una memoria più profonda, una memoria che si conservava e si alimentava attraverso una rappresentazione nient’affatto storica ma, piuttosto, teatrale? La Sicilia sapeva, o almeno sapeva fino a pochi anni fa, di essere un paese sismico, i suoi abitanti erano consapevoli che quella voce del profondo potesse ritornare.

Siamo davvero a uno spartiacque della memoria. La Chiesa stessa non compie più tutta quella serie di atti rituali che fino a ieri hanno tenuto in vita la memoria e, insieme a essa, il senso del pericolo. Penso in particolare alle cosiddette rogazioni. Le rogazioni sono quelle processioni durante le quali si invoca Dio per tenere lontane le calamità, come gli incendi, la siccità, l’eccesso di pioggia, il gelo e, naturalmente, i terremoti. Sono pratiche che la Chiesa ha abbandonato perché sono considerate arcaiche o comunque fonte di superstizione. Tuttavia, se il risultato di quella “superstizione” è mantenere viva la memoria di un evento successo secoli prima, perché quell’evento potrebbe tornare dal passato e ripetersi, forse il giudizio su queste pratiche dovrebbe essere riconsiderato.

A maggior ragione se parliamo di guerra (…). Nel 2001 sono stato mandato da La Repubblica in Afghanistan. Erano appena iniziati i bombardamenti americani sulle basi dei talebani, ed ero entrato nel Paese attraverso il mitico Khyber Pass a bordo di un camion di mujaheddin senza nemmeno mostrare il passaporto. Lo Stato afghano era in piena ebollizione. Quando finalmente arrivai a Jalalabad, vidi affluire nel giro di pochi giorni altri colleghi, tra cui l’amica del Corriere della Sera Maria Grazia Cutuli. Quando le dissi, preoccupato, che l’indomani avrei tentato di raggiungere Kabul, lei mi chiese di informarla se il trasferimento fosse pericoloso. Percorsi tutta la strada, passando anche dal famoso Passo della Morte tra Jalalabad e Kabul. Una volta arrivato nella capitale afghana, feci un bilancio del mio viaggio, e in quel momento mi resi conto di non aver mai avuto la minima percezione del pericolo. Chiamai quindi quella sera stessa Maria Grazia, che partì con altri colleghi. Durante quel viaggio fu uccisa dai banditi. Da allora, questa mia mancata percezione della paura e del pericolo è diventata un enorme peso sulla coscienza.

Jalalabad, Afghanistan

 

Siamo investiti da notizie allarmistiche, da titoli che evocano continuamente la parola ansia, la parola paura, la parola rabbia, ma in realtà ho l’impressione che questi sentimenti siano indirizzati verso obiettivi non reali. Per esempio, tornando al terremoto, tutta la rabbia dell’Aquila terremotata non si è riversata contro i costruttori responsabili di aver realizzato delle case fragili, costruite senza criteri anti-sismici, ma contro i sismologi che a giudizio degli abitanti non erano stati in grado di prevedere ciò che stava per accadere. E allora mi sono chiesto se, in questo mondo artificiale che ha perso il senso del limite, della potenza della natura, non abbiamo forse perso completamente quell’istinto che ci fa percepire il pericolo e ci fa camminare guardinghi in determinate situazioni. Sono andato a Kabul in uno stato di ebete contemplazione: guardavo quelle montagne, ma – alieno alla paura e alla memoria di eventi traumatici – non riuscivo a vedere quelle cose che apparivano ovvie agli abitanti del posto. Ho riflettuto su tutto questo, anche perché con il centenario della Prima Guerra mondiale ci siamo confrontati con il bisogno di trovare un tipo di narrazione nuova e diversa per rievocare quanto accadde durante quegli anni. Un’esigenza tanto più urgente se vogliamo mettere in relazione quella memoria con le instabilità che ci circondano e che riguardano il Nord Africa, il Vicino Oriente, la stessa Unione Europea, con gli scricchiolii che si avvertono in Grecia, Catalogna, Scozia, finanche in Belgio che, con Bruxelles, è il cuore della nostra unità.

Mi sono imposto di riflettere su queste macerie, per aiutare le persone a comprendere quanto è accaduto in quel passato, non soltanto con la mente, ma anche con il cuore, la pancia, i piedi. Con la pelle.

Condividi
La Fondazione ti consiglia
pagina 45464\