di Giulia Lami
Università degli Studi di Milano
In Russia la storia fa parte del demanio della corona
(A. De Custine)

I discorsi del Presidente della Federazione russa Vladimir Vladimirovič Putin del 21 febbraio e del 23 febbraio 2022, nell’imminenza dell’invasione dell’Ucraina, hanno colpito chi li ha letti per la negazione in essi contenuta, in definitiva, della statualità ucraina come tale, per non parlare del tema, apparentemente assurdo, della necessità di “denazificarla”.

L’insistito riferimento al nazismo per ciò che concerne l’Ucraina lascia perplessi e appare come un affondo polemico che vuol mettere insieme il biasimo per i “nazionalisti” ucraini della Galizia orientale degli anni ’40 – i cosiddetti banderisti – e i  “nazionalisti” di oggi: se quelli parteciparono all’operazione Barbarossa contro l’URSS, collaborarono con gli occupanti nazisti e poi contrastarono il ritorno dei sovietici, questi proseguono questa opera contro i russofoni, anzitutto nel Donbas.

Tutto questo resta implicito nell’uso indiscriminato del termine “nazista”, applicato a un paese che ha eletto con più del 70% un ebreo russofono come Presidente e dove le forze di destra raggiungono a stento l’un per cento in Parlamento. Certo, come alcuni sostengono – soprattutto a livello di media – la loro influenza potrebbe essere ben più alta della consistenza numerica; purtroppo, da storica, senza particolari fonti sul campo, è un punto su cui non posso esprimermi, ma inviterei alla cautela, quando l’argomento del “nazionalismo estremo” degli ucraini viene usato per gettare ombre sulla loro scelta di resistere fin dove possibile, e come possibile, ad una aggressione che vìola, comunque, i principi basilari del diritto che pensavamo garantiti in Europa, e anche ai suoi confini, in questo avvio degli anni ‘20 del XXI secolo.

Visivamente, certo, gli emblemi della formazione militare Azov, inserita nella Guardia nazionale e impegnata nella estrema difesa di Mariupol’, sembrerebbero deporre a favore del perdurare di un legame con l’OUN-UPA, che però è residuale, anche se antirusso, visto che per tutto il periodo sovietico l’accusa di “banderismo” si abbatté su quanti spesso, semplicemente, volevano tenere fermo il concetto che esisteva un’identità ucraina, almeno a livello linguistico-culturale, davanti alla predominanza – più o meno forzosa – della lingua e della cultura russa caratteristica del sistema sovietico a partire da Stalin.

Il riferimento al “nazismo” è quindi polemico, ma serve anche per esaltare la sconfitta inferta al nazismo dall’Unione sovietica, e quindi dalla Russia, che, in questo caso, rivendica una continuità, che altrove nega, preferendo recuperare l’identità dell’Impero zarista, specie nella concezione dei Bianchi, e cioè come Russia “una e indivisibile”.

Il paradosso è che chi abbia frequentato l’URSS sa bene che mai si citava il nazismo, ricompreso nell’onnipervasiva definizione di “fascismo”: fascista, infatti, e non “nazi-fascista” veniva definita l’aggressione con cui nel 1941 ebbe inizio la “Grande Guerra Patriottica”, la cui festa della vittoria cade il 9 maggio.

Non appaia ridicolo se affermo che alcuni comuni cittadini russi, curiosi di storia – correva l’anno 1984 – chiesero proprio a me come italiana, in via confidenziale, perché a mio avviso in URSS non si parlasse di aggressione “nazi-fascista”, ma semplicemente di aggressione “fascista” per sottopormi il dubbio che questo derivasse da una questione onomatopeica, in quanto “fascismo” avrebbe un suono decisamente più “rotondo” di quello di “nazismo” e quindi più atto ad esprimere disgusto.

In un contesto in cui bisognava calibrare le parole che si pronunciavano, perché si era consci di un’attività, diretta o indiretta, di sorveglianza non era facile affrontare l’argomento della Seconda guerra mondiale, ricordare che era iniziata nel 1939, ma che a quell’epoca l’URSS e la Germania non erano nemiche e che, grazie al Patto Molotov-Ribbentrop, avevano proceduto congiuntamente all’invasione della Polonia, rischiando passo a passo di arrivare a “vietate” citazioni sul destino dei Paesi baltici, della Finlandia, della Bucovina, e così via.

Non era neanche facile, per le implicazioni, spiegare che l’uso della parola fascismo era più funzionale alla propaganda sovietica per la sua applicabilità a varie situazioni dittatoriali esistenti nel mondo della parola nazismo, troppo legata ad una esperienza storica ormai conclusa, né era facile proseguire spiegando in che cosa i regimi democratici differissero da quelli autoritari…

Con la perestrojka e la glasnost molti temi tabù vennero affrontati e ancor di più se ne trattò nell’epoca di El’cin, tanto vituperata, ma indubbiamente più libera delle precedenti e delle successive.

E ricordo il dolorosissimo recupero della memoria, individuale e collettiva, mossa dall’imperativo di riempire le cosiddette macchie bianche, frutto di una settantennale politica di manipolazione; quanto sia stata dolorosa, in molti casi traumatica, la ricognizione effettuata nelle ‘stanze della storia’, di porta in porta e quanto impetuoso il ritorno della memoria storica che ha finito per mettere in discussione l’identità collettiva di una intera società.

Come disse lo storico Michail Gefter, la storia aveva cessato di essere verticale, per diventare orizzontale: un vasto campo di rovine da cui trarre le pietre per costruire la casa del futuro, con una inevitabile immediata politicizzazione. Insomma, crollato un impero, ognuno si riappropria di ciò che crede essere suo, in un orizzonte che è cambiato nella realtà, ma non sempre nel profondo di chi quella realtà ha costruito.

Non mi ha stupito quindi il tentativo, dopo il periodo gorbaceviano e eltsiniano, di costruire un’arca russa – per usare il titolo del film di Aleksandr Sokurov del 2002 – , in cui mettere in salvo i beni patrii irrinunciabili, per ricucire la trama della storia, per uscire dal “vicolo cieco” menzionato da Putin nel suo celebre proclama-manifesto del 1999 La Russia alla svolta del millennio ((F. Mezzetti, Il mistero Putin, Novara, Boroli 2003, pp. 63 ssg)). A tagliar corto su tutto il dibattito anticomunista dell’epoca della perestrojka, Putin affermava “sarebbe sbagliato negare le indubbie conquiste di quei tempi, ma ancor più sbagliato non rendersi conto del prezzo oltraggioso che il nostro Paese e il nostro popolo hanno dovuto pagare per l’esperimento bolscevico. Sarebbe ancor maggior errore non capire la sua futilità storica» e proponeva un piano di risanamento che mirasse alla «rinascita, alla prosperità, alla stabilità politica” [corsivo mio].

Ecco quindi che la narrazione storica veicolata in saggi e discorsi da V. V. Putin, dal 1999 a oggi, a sostegno delle scelte operate dalla leadership, obbligano ad una riflessione sull’uso della storia che viene condotto, proponendosi sempre più di plasmare i sentimenti, le opinioni e le attitudini pubbliche. Credo che uno dei compiti di noi storici – con i linguisti e i giuristi – nei prossimi anni vi sia quello di un’analisi puntuale di come il discorso politico sia stato costruito su una revisione storica e una riscrittura di vasta portata, che vuole assurgere a dignità di dottrina costitutiva dello stato e dei rapporti di questo con le istituzioni e la società all’interno e con gli altri stati all’esterno.

In questo contesto vorrei ripercorrere il saggio del 12 luglio 2021 a firma V. V. Putin sull’unità di russi e ucraini, che chiarisce le premesse di quelle affermazioni a prima vista sconcertanti, contenute nei discorsi successivi (Article by Vladimir Putin “On the Historical Unity of Russians and Ukrainians” • President of Russia en.kremlin.ru/events/president/news/66181).

Non posso qui riprenderlo interamente o discuterne punto per punto. Su ogni affermazione esiste una sterminata storiografia, ogni periodo o evento menzionato sarebbe degno di un corso universitario. Putin effettua un percorso dalla Rus’ di Kiev al giorno d’oggi indubbiamente scorrevole e compatto, con omissioni significative e sottolineature funzionali alla teoria dell’unità degli slavi orientali.

  • a )“Russians, Ukrainians, and Belarusians are all descendants of Ancient Rus, which was the largest state in Europe. Slavic and other tribes across the vast territory – from Ladoga, Novgorod, and Pskov to Kiev and Chernigov – were bound together by one language (which we now refer to as Old Russian), economic ties, the rule of the princes of the Rurik dynasty, and – after the baptism of Rus – the Orthodox faith. The spiritual choice made by St. Vladimir, who was both Prince of Novgorod and Grand Prince of Kiev, still largely determines our affinity today” (p. 1/18).
  • b) Si descrive poi l’effetto disgregante che su questo insieme statuale ebbe l’invasione mongola, che portò anche alla devastazione di Kiev.
  • c) “The northeastern part of Rus fell under the control of the Golden Horde but retained limited sovereignty. The southern and western Russian lands largely became part of the Grand Duchy of Lithuania, which – most significantly – was referred to in historical records as the Grand Duchy of Lithuania and Russia” [Corsivo mio]: qui il termine Rus’, più propriamente usato all’epoca, viene già sostitutito dal termine Russia. Nel testo in russo l’espressione usata da Putin è “Великим Княжеством Литовским и Русским” (p. 2/18). Uno slittamento da Rus’ a Russia che già nell’Ottocento creava una divisione fra storici ufficiali “russocentrici” e uno storico ucraino – costretto a pubblicare all’estero – come S. Hruševs’kyj, che intitolò la sua fondamentale opera in 10 volumi Storia dell’Ucraina-Rus’ (1917), proprio a sottolineare un’identità ucraina separata da quella russa.
  • d) Si prosegue descrivendo il rafforzamento di Mosca, il suo liberarsi dal “giogo mongolo”, il suo porsi come centro di riunificazione, continuando la tradizione della statualità dell’antica Russia, ponendosi il compito di “raccogliere” le sua terre.
  • e) Si delinea come la Lituania abbia seguito un percorso diverso, unendosi al regno di Polonia (Unione di Lublino), accettando il cattolicesimo, fino a giungere all’Unione di Brest (1596), con cui “part of the western Russian Orthodox clergy submitted to the authority of the Pope. The process of Polonization and Latinization began, ousting Orthodoxy” (p. 3/18).
  • f) Si giunge quindi alla rivolta cosacca del 1648, al ruolo in essa di Bohdan Chmel’nyc’kyj, al suo rivolgersi a Mosca, a riceverne il patronato, stipulando il trattato di Perejaslav (1654). Si fa presente che nei documenti dell’epoca i cosacchi si definiscono un popolo russo ortodosso. Si giunge poi alla pace di Andrusovo del 1667 e al Trattato di pace perpetua fra Moscovia e Polonia-Lituania del 1686 (p. 3/18). Sull’immediata frizione fra le terre cosacche e la Moscovia si sorvola, accennando soltanto che “over the course of the protracted war between the Russian state and the Polish–Lithuanian Commonwealth, some of the hetmans, successors of Bohdan Khmelnytsky, would ‘detach themselves’ from Moscow or seek support from Sweden, Poland, or Turkey. But, again, for the people, that was a war of liberation” (p. 3/18) [corsivo mio].
  • g) Così lo stato russo incorporò la città di Kiev, la terre della riva sinistra del Dnepr “including Poltava region, Chernigov region, and Zaporozhye”: questi abitanti furono “reunited with the main part of the Russian Orthodox people”. Questa è la Piccola Russia (p. 4/18).

Come si può vedere anche solo da questa prima parte della ricostruzione storica, il filo rosso è sempre quello della comunanza esistente fra slavi orientali a livello di lingua e di fede e a dispetto delle divisioni storiche ingenerate dalla fine della Rus’ di Kiev il cui erede, naturale, ma politico è, in definitiva, la Moscovia.

La narrazione quindi attenua gli aspetti di divisione, attribuendoli, ove necessario, all’ingerenza straniera, come già enunciato nel preambolo, dove si ricorda che l’uso strumentale della questione nazionale è attuato per seminare discordia, all’insegna del divide et impera.

Non può quindi stupire che tutti i momenti in cui, apparentemente, la Piccola Russia si allontana da questo paradigma unitario, vengano stigmatizzati come negativi. E quindi vediamo specificamente che Mazepa, i patrioti “ucraini” dell’Ottocento, Petljura vengono biasimati, con toni tipici del lessico russo-sovietico contro il separatismo; ma il fatto che essi vengano onorati nell’Ucraina postsovietica viene ritenuto inaccettabile o meglio viene inquadrato in quell’atteggiamento antirusso dell’Ucraina contemporanea che Putin ritorce contro questo Paese.

E infatti Putin spiega in chiave negativa l’evoluzione dell’Ucraina nel XX-XXI secolo, all’insegna di un distacco, voluto dalle élites ucraine e sostenuto da avversari dell’unità slava dei tre grandi popoli orientali. Interessante un’argomentazione verso la fine del saggio:

  • h) “There may be an argument: if you are talking about a single large nation, a triunenation, then what difference does it make who people consider themselves to be – Russians, Ukrainians, or Belarusians. I completely agree with this. Especially since the determination of nationality, particularly in mixed families, is the right of every individual, free to make his or her own choice. But the fact is that the situation in Ukraine today is completely different because it involves a forced change of identity. And the most despicable thing is that the Russians in Ukraine are being forced not only to deny their roots, generations of their ancestors, but also to believe that Russia is their enemy. It would not be an exaggeration to say that the path of forced assimilation, the formation of an ethnically pure Ukrainian state, aggressive towards Russia, is comparable in its consequences to the use of weapons of mass destruction against us. As a result of such a harsh and artificial division of Russians and Ukrainians, the Russian people in all may decrease by hundreds of thousands or even millions” (p. 14/18) [corsivo mio].

Come si può notare gli accostamenti semantici sono inquietanti, l’allusione alle armi di distruzione di massa allarmante per le sue implicazioni, ma indubbiamente anche questa lettura storica ha, in parte, un fondamento pragmatico: l’Ucraina è sempre stata la maggiore delle Repubbliche dopo la Russia e soprattutto una repubblica “slava”, di cui molti hanno sottolineato che rappresenta la conditio sine qua non perché la Russia sia un Impero o anche semplicemente un elemento indispensabile per ogni progetto di integrazione economica.

A proposito del riferimento alla decrescita demografica russa, a prescindere dalla fattispecie del pericolo evocato, come dimenticare che nell’Impero zarista, nei censimenti, ucraini e bielorussi venivano rubricati come russi, per aumentarne la consistenza numerica all’interno di un’impero multietnico attraversato da spinte centrifughe?

Le linee del saggio di Putin si riflettono nei suoi discorsi pre-invansione (21 e 23 febbraio 2022). Il riferimento storico non è tanto l’URSS quanto l’Impero russo, che lui chiama Russia, per avvalorare l’idea che tutto ciò che era dell’Impero dovrebbe essere della Russia.

C’è una differenza, se consideriamo che con la fine dell’URSS le Repubbliche costituitive sono diventate indipendenti e teoricamente libere di scegliere politica interna ed estera. Ma nella sua area immediata di possibile influenza Putin non lo accetta: anzi respinge il modello sovietico proprio perché i bolscevichi avrebbero ricavato le Repubbliche dal corpo della Russia – sinonimo di impero russo –, le avrebbero dotate di diritto di secessione costituzionale, con la conseguenza di autorizzarle a volgere le spalle alla Russia.

È il caso dell’Ucraina. L’Ucraina attuale, dice Putin, è stata creata da Lenin e poi da Stalin dopo la II guerra mondiale.

  • i) “Therefore, modern Ukraine is entirely the product of the Soviet era. We know and remember well that it was shaped – for a significant part – on the lands of historical Russia. To make sure of that, it is enough to look at the boundaries of the lands reunited with the Russian state in the 17th century and the territoryof the Ukrainian SSR when it left the Soviet Union. The Bolsheviks treated the Russian people as inexhaustible material for their social experiments. They dreamt of a world revolution that would wipe outnational states.That is why they were so generous in drawing borders and bestowing territorial gifts” (p. 9/18).

Si tenga presente che una impostazione siffatta non è affatto rassicurante per le altre ex-repubbliche sovietiche, parimenti “artificiali” e composte anche da minoranze russe o russofone, rimaste sul loro territorio anche negli ultimi decenni.

Non a caso, Putin sfiora l’argomento, che non può ignorare, riconoscendo:

  • l) “Of course, some part of a people in the process of its development, influenced by a number of reasons and historical circumstances, can become aware of itself as a separate nation at a certain moment. How should we treat that? There is only one answer: with respect!” (p. 10/18),

ma precisando subito:

  • m) “You want to establish a state of your own: you are welcome! But what are the terms? I will recall the assessment given by one of the most prominent political figures of new Russia, first mayor of Saint Petersburg Anatoly Sobchak. As a legal expert who believed that every decision must be legitimate, in 1992, he shared the following opinion:the republics that were founders of the Union, having denounced the 1922 Union Treaty, must return to the boundaries they had had before joining the Soviet Union. All other territorial acquisitions are subject to discussion, negotiations, given that the ground has been revoked” (p. 10/18).

È chiaro, in quest’ottica, che l’Ucraina, con i territori del Doneck-Krivoj Rog che formano la maggior parte dell’Ucraina sud-orientale, le terre ex-asburgiche, divise fra gli stati successori dell’Austria-Ungheria (Polonia, Romania, Cecoslovacchia) e recuperate da Stalin – fra gli anni fra il 1939 (patto Molotov-Ribbentrop) e la conclusione dei trattati al termine della Grande Guerra Patriottica – per non parlare della Crimea – non le appartengono se non in quanto “sovietica”. Eppure – argomenta Putin – la Federazione russa ha ben riconosciuto le frontiere quando l’Ucraina è diventata indipendente, fornendole un “considerevole supporto”.

Eppure oggi è uno dei paesi più poveri d’Europa.

  • n) “Who is to blame for this? Is it the people of Ukraine’s fault? Certainly not. It was the Ukrainian authorities who waisted and frittered away the achievements of many generations” (p. 11/8). Ma soprattutto, i circoli dirigenti ucraini “decided to justify their country’s independence through the denial of its past, however, except for border issues. They began to mythologize and rewrite history, edit out everything that united us, and refer to the period when Ukraine was part of the Russian Empire and the Soviet Unionas an occupation. The common tragedy of collectivization and famine of the early 1930s was portrayed as the genocide of the Ukrainian people” (p. 12/18).

Putin evidentemente nega la specificità dello Holodomor ucraino, che è diventato, soprattutto a partire dalla presidenza Juščenko (2005-2010), un aspetto memoriale importante nell’identità ucraina, ma soprattutto egli introduce l’idea che l’aggressività antirussa sia opera di radicali e neo-nazisti:

  • o) “indulged by both the official authorities and local oligarchs, who robbed the people of Ukraine and kept their stolen money in Western banks, ready to sell their motherland for the sake of preserving their capital. To this should be added the persistent weakness of state institutions and the position of a willing hostage to someone else’s geopolitical will” (12/18).

Putin sostiene che ancora prima del 2014 (la data spartiacque nella contrapposizione fra i due paesi dopo l’Euromaidan del 2013, con l’inizio della guerra ibrida in Donbas  e l’annessione della Crimea come reazioni) “the U.S. and EU countries systematically and consistently pushed Ukraine to curtail and limit economic cooperation with Russia” (p. 13/18), ignorando le richieste di dialogo avanzate dalla Russia.

In pratica, scrive Putin è avvenuto che:

  • p) “Step by step, Ukraine was dragged into a dangerous geopolitical game aimed at turning Ukraine into a barrier between Europe and Russia, a springboard against Russia. Inevitably, there came a time when the concept of ”Ukraine is not Russia“ was no longer an option. There was a need for the ”anti-Russia“ concept which we will never accept” (p. 13/18) [corsivo mio].

Ancora una volta, per sostanziare questa ostilità attuale verso l’Ucraina, Putin fa ricorso alla storia, risalendo al vecchio tema delle spinte polacco-austriache per convincere ucraini di non essere russi: un tema proprio dell’epoca in cui, davanti alle insurrezioni polacche (1830, 1863), la pubblicistica russa supportava le autorità che temevano di assistere alla destabilizzazione delle loro frontiere. Ma nella ricostruzione offerta da Putin la vittima di queste manovre straniere, di ieri e di oggi, è sempre il popolo ucraino. Non si ricorda quindi solo l’opera degli ideologi austro-polacchi per creare  una “Russia anti-Mosca”, ma anche il fatto che:

  • q) “The Polish-Lithuanian Commonwealth never needed Ukrainian culture, much less Cossack autonomy. In Austria-Hungary, historical Russian lands were mercilessly exploited and remained the poorest. The Nazis, abetted by collaborators from the OUN-UPA, did not need Ukraine, but a living space and slaves for Aryan overlords” (p. 13/18).

Si noti, allora, come Putin entri nelle pieghe della storia ucraina con attenzione selettiva ad episodi che non si possono negare, pieni di aspetti contraddittori e controversi, ma emozionalmente evocativi, se non per gli ucraini, per i russi che hanno recepito fra vecchi e nuovi manuali una visione della storia patria che si accosta a questa visione putiniana, per giungere all’oggi.

La parte finale del saggio, infatti, stigmatizza l’evoluzione dell’Ucraina, la legislazione sulla lingua, il nazionalismo aggressivo, il persistente tentativo di negare il passato e il possibile futuro comune con la Russia. Ormai, però, dopo “il colpo di stato” e l’innesco della guerra civile – attribuita a Kiev –, il fallimento di Minsk-1 e Minsk-2 – per colpa dell’Ucraina, naturalmente – sembra che il terreno di incontro sia estremamente scarso. E tuttavia Putin conclude:

  • r) “I am confident that true sovereignty of Ukraine is possible only in partnership with Russia. Our spiritual, human and civilizational ties formed for centuries and have their origins in the same sources, they have been hardened by common trials,achievementsand victories. Our kinship has been transmitted from generation to generation. It is in the hearts and the memory of people living in modern Russia and Ukraine, in the blood ties that unite millions of our families. Together we have always been and will be many times stronger and more successful. For we are one people. Today, these words may be perceived by some people with hostility. They can being interpreted in many possible ways. Yet, many people will hear me. And I will say one thing – Russia has never been and will never be ‘anti-Ukraine’. And what Ukraine will be – it is up to its citizens decide” [corsivo mio].

 

Alla luce della guerra in corso, con i suoi orrori, ci si chiede – e non si vuole essere ironici – come potrà mai esprimersi la volontà degli ucraini: attraverso la prospettata serie di referendum nella serie di città che si pensa di “liberare” ed erigere in Repubbliche popolari?



Leggi On the Historical Unity of Russians and Ukrainians di Vladimir Putin in versione integrale.


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