Proponiamo qui un estratto del saggio di Salvatore Paolo De Rosa intitolato Trasformare il mondo: ecologia politica e conflitti ambientali e pubblicato nel volume Dieci idee per ripensare il capitalismo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Pochi fenomeni rappresentano plasticamente l’intreccio di piani e sfide attuali come gli incendi epocali della foresta amazzonica del 2019. Localizzati alla frontiera del disboscamento, i fuochi che hanno arso per settimane nel più grande bacino d’acqua e biodiversità del pianeta sono stati innescati dolosamente. La mano che li ha appiccati rispondeva alla pressione della classe di ranchers e agricoltori che necessita di terra vergine per l’espansione di allevamenti di manzo e coltivazioni di soya, a sua volta stimolata dai profitti realizzabili assecondando la richiesta crescente di esportazione di carne e mangimi da parte dei consumatori di aree più ricche del pianeta. Le zone della foresta date alle fiamme erano però già altamente compromesse dalla deforestazione e rinsecchite dall’aumento delle temperature. Ciò ha causato un’espansione senza precedenti dei fronti incendiari, che hanno rilasciato a loro volta massicce quantità di CO2, riducendo al contempo la copertura forestale assorbitrice di carbonio, e generando così feedback positivi che alimentano l’ulteriore riscaldamento globale. Politicamente, sul fronte brasiliano, tale opera di distruzione è stata resa possibile dalla complicità dell’attuale presidenza di Bolsonaro, noto negazionista climatico, politico autoritario e demolitore dei limiti ai capitali nazionali e internazionali nello sfruttamento dell’Amazzonia. È questo l’esito di un processo lungo secoli, che è stato combattuto primariamente dalle popolazioni indigene amazzoniche sopravvissute ai genocidi, le quali per prime pagano le conseguenze della distruzione in corso, ancora oggi impegnate in prima linea alle frontiere di estrazione di cui solo ora il mondo sembra accorgersi. Ecco, nell’immagine dell’Amazzonia che brucia e dei popoli indigeni che resistono, condensate le contraddizioni del nostro tempo.

(…) Inoltre, attraverso questo incontro teorico, i saperi e le pratiche di cura del territorio espressi dall’ambientalismo di base, dalle comunità in rivolta e dalle popolazioni indigene, appaiono più chiaramente come refrattari a specifici metabolismi socio-ecologici, aprendo all’elaborazione e valorizzazione di configurazioni alternative emergenti al basso. In tal modo, i conflitti ambientali si profilano come il fronte più avanzato e uno dei nodi centrali dello scontro fra, da un lato, processi, politiche e ideologie che minano le possibilità di riproduzione della vita e, dall’altro, la ricreazione e preservazione di modi alternativi di concepire e praticare il rapporto tra società e ambiente realmente sostenibili.

Un inquadramento delle trasformazioni ambientali alimentate dal processo economico attraverso le lenti del metabolismo socio-ecologico è sensibile alle fitte relazioni e interazioni reciproche fra luoghi collocati in punti differenti del ciclo di estrazione, trasformazione, consumo e smaltimento delle merci. Tale sensibilità permette di non cadere nella percezione fallace che un determinato fenomeno o processo sia aprioristicamente più sostenibile di un altro in base a considerazioni teoriche. Ad esempio, per quanto l’uso delle energie rinnovabili sia preferibile in termini generali all’uso di combustibili fossili, domande pertinenti vanno poste sulle caratteristiche dei processi estrattivi implicati nel procacciamento dei minerali e di altri materiali necessari alla produzione di pannelli solari o pale eoliche, così come sugli usi effettivi dell’energia prodotta. Allo stesso modo, va interrogato il ruolo delle comunità locali nell’ambito dei processi decisionali relativi a tutti i passaggi di determinati usi delle risorse. I modi in cui le ecologie locali vengono alterate, trasformate, valorizzate o devastate non possono essere disgiunti dall’analisi di quei centri di potere che muovono persone e cose per soddisfare obiettivi sociali a loro volta frutto di scelte e priorità di natura politica. Lo smaltimento di rifiuti pericolosi in una data area e secondo certe modalità, ad esempio, è certamente funzionale al mantenimento di pulizia, ordine e salubrità in altre zone: chi e come soffrirà la contaminazione, e perché, restano domande cruciali per ripensare le politiche ambientali secondo criteri di reale sostenibilità (cioè allargata a tutti i processi socio-ecologici sull’intero pianeta) e di giustizia e uguaglianza sociali. Ed è nei conflitti che queste contraddizioni emergono in maniera più chiara. Lo stesso cambiamento climatico, se inquadrato come conflitto globale tra il diritto alla distruzione di un ristretto gruppo sociale e la pretesa di sopravvivenza a beneficio della maggioranza, può essere decifrato come l’esito di sbilanciamenti di potere con una lunga storia, uno sbilanciamento che le soluzioni proposte non dovrebbero riprodurre facendo pagare ad alcuni il mondo sostenibile di altri. Inoltre, la critica sociale a determinati metabolismi socio-ecologici va anche vista come il primo passo verso la formulazione di metabolismi alternativi radicati in concezioni rinnovate del rapporto fra società e natura. Anche qui i conflitti si profilano come straordinario laboratorio in cui vengono messi in questione modi di vita e orizzonti di significato egemonici. Muovendo da una rinnovata o mai cessata relazione con il territorio, non esclusivista e aperta ad alleanze e scambi globali, i movimenti per la giustizia ambientale contribuiscono a ricostituire identità e culture consapevoli dei processi ecologici che le sostengono, consce delle relazioni vicine e lontane tra ambienti e gruppi sociali, e orientate verso sostenibilità ambientale e giustizia sociale da acquisire tramite la cura e la presa in carico dell’insieme delle relazioni ecosistemiche.
Dalla prospettiva dell’ecologia politica, uno dei ruoli fondamentale dei conflitti ambientali è quindi la ripoliticizzazione di discorsi e pratiche dominanti che legittimano specifici interventi socio-ambientali e determinati processi metabolici sulla base di valutazione presentate come oggettive, necessarie e neutre. Il politico, la sua ri-emersione, si riferisce qui a qualcosa di molto diverso dalle procedure di governo statuali e dalla governance ambientale, per quanto multi-stakeholder e “partecipativa”. Secondo il geografo belga Erik Swyngedouw, quel che differenzia il momento politico dalla semplice riproduzione dell’ordine costituito è la sua caratteristica di essere “un terreno pubblico di contestazione dove differenti immaginari di possibili ordini socio-ecologici competono intorno all’istituzionalizzazione materiale e simbolica di tali visioni… [il politico] è il terreno che rende visibile e percepibile le prospettive e i desideri eterogenei che attraversano il corpo sociale” . Piuttosto che il luogo dove opposte visioni si sublimano in un’unità più alta, l’emergere del politico implica nuove pratiche di vita comunitaria, la produzione conflittuale di nuove spazialità egalitarie attraverso la riappropriazione simbolica e materiale dello spazio, e la produzione di nuove relazioni socio-ecologiche e immaginari della natura alternativi. Inoltre, e ciò è decisivo, la preservazione di condizioni socio-ecologiche adatte alla riproduzione fisica e simbolica delle comunità locali partecipa, più di tanti altri interventi individuali o statuali, al mantenimento di un pianeta abitabile.
Definire i cambiamenti climatici una “sfida per l’umanità” non rende giustizia della complessità della congiuntura in corso. In particolare, offusca la realtà dell’attuale momento, il quale estremizza l’eredità storica di questioni irrisolte in termini di disuguaglianze economiche e politiche, riafferma la continuità degli assetti globali attuali con la divisione coloniale del mondo, e dimostra come consolidati centri di potere mirino esclusivamente alla propria autoconservazione. Non tutti gli individui sono responsabili del riscaldamento gobale e della crisi ecologica, e non tutti ne pagheranno le conseguenze allo stesso modo: il rischio concreto è che i ricchi – maggiori responsabili delle emissioni climalteranti – si isoleranno lí dove la vita sarà ancora possibile, protetti da confini, eserciti e tecnologie, mentre i poveri vagheranno in ambienti irriconoscibili e invivibili. Risulta sempre più evidente che soluzioni che tengano insieme giustizia ambientale e sociale, mitigazione degli effetti del cambiamento climatico a breve e lungo termine e adattamento in spirito di solidarietà, non arriveranno dalla sommità della piramide sociale.

I fallimenti dei progetti di crescita sostenibile ed economia verde, risultati incapaci di internalizzare la preservazione dell’ambiente nel processo economico, e il tentativo da parte di industria e governi di convogliare le spinte sociali al cambiamento entro soluzioni coincidenti con i loro scopi, dimostrano che le elite sono disposte a cambiare tutto solo nella misura in cui non cambi nulla nella divisione ineguale di ricchezza e potere. La logica inerente al capitalismo, fondata su estrazione di profitti e crescita illimitata, non viene mai messa in discussione. Ciò si riflette nelle modalità in cui le città si organizzano intorno all’emergente ordine discorsivo della crisi ecologica mettendo in campo misure che, da un lato, sono ininfluenti rispetto alla magnitudine dei cambiamenti richiesti (come i bandi alla plastica monouso e le giornate car-free) mentre, dall’altro, dirottano il discorso ambientalista verso nuove opportunità di accumulazione, autopromozione e speculazione (tramite il supporto a quartieri eco-sostenibili per minoranze privilegiate e a infrastrutture megalitiche inutili). Allo stesso tempo, assistiamo a una crescente criminalizzazione da parte degli stati nei confronti dei partecipanti a mobilitazioni in difesa di ecosistemi e territori, specialmente in quei conflitti ambientali localizzati alle frontiere estrattive, in cui resistenza ed elaborazione di alternative si scontrano con gli apparati a difesa dello status quo.

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