Università Luiss Guido Carli

In Europa, le sinistre sono in crisi. Che si tratti della sinistra comunista (che è quasi scomparsa), della sinistra radicale (Podemos in Spagna, La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, Syriza, Die Linke in Germania) o della socialdemocrazia, come dimostrano ad esempio i recenti fallimenti elettorali della SPD tedesca, il Labour di Corbyn o il Partito socialista in Francia. Fin dalla sua nascita, alla fine del XIX secolo, la storia della socialdemocrazia è sempre stata caratterizzata da periodi di grandi progressi e momenti critici. Ogni volta la socialdemocrazia ha saputo adattarsi e rinnovarsi. Ma, entrando nel secondo decennio del secondo millennio, la portata di queste difficoltà è tale che è legittimo chiedersi se ciò possa accadere di nuovo. Questa domanda ha dato e continua a dare origine a un gran numero di libri, articoli, seminari e simposi. Tra tutte le sfide che la socialdemocrazia deve affrontare, due sono particolarmente significative.

La prima è la crescente complessità delle scissioni politiche. La socialdemocrazia, storicamente e certamente in modo troppo schematico, si era sviluppata lungo due grandi linee di faglia. In primo luogo, c’era il divario tra aspirazione democratica e dominio autoritario; alla fine del XIX secolo, ad esempio, il più grande dei partiti socialdemocratici, la SPD, che ha rappresentato un punto di riferimento per tutti i socialisti europei, si è battuta per l’instaurazione di un regime democratico. L’altra linea di demarcazione era quella tra capitale e lavoro, la borghesia e il proletariato, e poi, a partire dagli anni Sessanta, le classi alte del mondo dei salariati. Oggi le linee di faglia sono molteplici, dividendo sia la destra che la sinistra: sostenitori della globalizzazione contro i difensori del locale, filoeuropei contro euroscettici, sostenitori dello sviluppo sostenibile e quindi di una crescita rispettosa dell’ambiente, così come sostenitori della decrescita contro i sostenitori del ritorno alla crescita a tutti i costi, a favore dei migranti contro i costruttori di muri, ecc.

La seconda sfida nasce da un’osservazione effettuata dal socialista francese Léon Blum già nel 1931. Scriveva sul giornale del suo partito, Le Populaire: “Viviamo in un momento singolare e patetico della storia del mondo, dove l’evoluzione economica fornisce attestazioni sempre più evidenti, dimostrazioni sempre più vivide della verità della nostra dottrina, e dove, tuttavia, per una strana contraddizione, il potere politico del socialismo si indebolisce e si allontana sotto gli assalti disperati dei nostri nemici”. Questa citazione si può applicare anche alla situazione attuale. I partiti di sinistra continuano a proporre politiche di ridistribuzione sociale, ritenendo giustamente che la questione delle disuguaglianze di ogni tipo – sociali, territoriali, tra uomini e donne, generazionali, tra cittadini e stranieri – sia fondamentale. Ma chiaramente non sono in grado di convincere la classe operaia, gli elettori popolari e quelli poco istruiti. Sono proprio coloro che soffrono maggiormente delle diseguaglianze sempre più evidenti che segnano le nostre società. Quando vanno alle urne, preferiscono votare per i partiti populisti. Per quale ragione? Perché questi elettori sono delusi dai partiti di sinistra, a cui danno la colpa per averli abbandonati quando erano al potere. Perché anche loro, come hanno dimostrato una serie di indagini sociologiche, non hanno fiducia non solo nella politica ma anche negli altri, nei vicini, negli stranieri; sono quindi tentati di ritirarsi e di identificarsi con i partiti che chiedono il rifiuto dell’immigrazione, dell’Europa, dei politici tradizionali.

In queste condizioni, la sinistra può essere tentata di tornare alle sue politiche tradizionali. Più promesse sociali, più spese, più tasse, più Stato, a volte più nazione e meno Europa, più locale e nessuna globalizzazione. Questo è stato il tentativo del Labour di Corbyn che ha portato a un disastro amplificato dalle sue ambiguità sulla Brexit e sull’antisemitismo. Eppure la sinistra ha ancora uno scopo e una funzione: proteggere gli indigenti, agire per un mondo più giusto. Deve elaborare una valutazione approfondita delle esperienze della Terza Via propugnata negli anni Novanta da Tony Blair e Gerhard Schröder e poi esplorare altre strade di lavoro. Deve, ad esempio, combinare politiche sociali collettive e individualizzate, ma anche politiche ecologiche. Riformulare le proposte per lo sviluppo dell’Unione Europea perché è a questo livello, come a quello del vasto mondo, che possiamo aspettarci di affrontare le grandi questioni del clima, delle migrazioni, della sicurezza collettiva e della regolamentazione finanziaria. Reinventare modelli di integrazione dell’immigrazione. Riformare le nostre democrazie, le istituzioni, i partiti e i modi di fare politica. E ancora di più, nei tempi che stiamo vivendo, quelli di una “decivilizzazione”, per usare la nozione di Norbert Elias, si tratta di ingaggiare una battaglia sui valori umanistici più fondamentali, sia in relazione ai populisti che agli islamisti. Questa vasta agenda non riguarda solo la democrazia sociale, ma una moltitudine di attori politici, sociali e culturali molto diversi tra loro che compongono il campo progressista.

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