La migrazione dalla campagna alla città costituisce un fenomeno ormai consolidato nella nostra storia, “dalla campana della chiesa alla sirena della fabbrica”, per citare Corrado Stajano.
Cosa succede però se consideriamo un movimento opposto? Pensiamo agli studenti universitari: hanno avuto risonanza mediatica i casi di alcuni giovani che, dopo la laurea o un primo lavoro, hanno abbandonato le ambizioni di carriera per dedicarsi all’allevamento e all’agricoltura in zone rurali e periferiche. Certo, a volte si guarda a questi casi come al mito intramontabile dell’Arcadia, ma in fondo la loro scelta risuona alle orecchie dei più come una rinuncia – di realizzazione professionale, di formazione, di visibilità.
Muoversi verso la periferia – intesa in senso lato – deve per forza comportare una rinuncia?
Spostamenti verso le zone rurali si notano soprattutto tra la popolazione anziana e talvolta tra i migranti extracomunitari, che spesso sono riusciti nell’impresa di rimettere in moto economie locali in decadenza. Si pensi alle realtà di Riace e dell’azienda agricola in Valle Dei Mocheni di Agitu Ideo Gudeta, originaria dell’Etiopia.
Contro-urbanizzazione vuol dire prima di tutto redistribuzione. Le correnti, talvolta di portata globale, di persone, di risorse economiche, di informazione investono le aree “piene” e toccano solo marginalmente i piccoli centri. La città è insomma una zona di passaggio (obbligato), mentre i paesi appaiono statici e mettono irrimediabilmente il cittadino di fronte alla questione del suo legame di interdipendenza con il territorio e le possibilità che offre.
Stato delle migrazioni interne
Negli ultimi venti anni circa 1 milione di italiani è emigrato dal Mezzogiorno al Centro-Nord, un dato che conferma i risultati di alcuni modelli di economia spaziale (Krugman, 1991), ma che temiamo possa rafforzare le disuguaglianze nel Paese.
Divergenze economiche fra centro e periferia
Con la sua “rivoluzione” dei rendimenti di scala crescenti, Paul Krugman (1991) ha dato vita alla Nuova geografia economica. Nel modello centro-periferia che lo ha portato a vincere il Nobel nel 2008, Krugman ha spiegato il concetto di “home market effect”: grazie a minori costi di trasporto e rendimenti di scala crescenti nel settore manifatturiero, le imprese si collocano in prossimità dei grandi centri con ampia domanda. Così dalle zone rurali vengono attratti nell’agglomerato urbano lavoratori, famiglie e nuove imprese, portando ad un incremento dei salari.
Il modello di Krugman trova riscontro nel caso italiano, in cui il saldo migratorio verso il Nord è positivo e le divergenze economiche con il Sud sono nette.
Come riportato dai conti economici territoriali Istat, nel 2019 il PIL è aumentato dello 0,4 e 0,5% rispettivamente nel Nord-est e Nord-ovest, mentre del 0,2-0,3% nel Mezzogiorno. Una disparità che si manifesta anche nella graduatoria dei livelli di Pil pro capite che al Nord raggiunge i 37mila euro, quasi il doppio del Sud, pari a poco più di 19mila euro annui.
Contro-urbanizzazione
Il geografo e antropologo Brian Berry (1980) nel suo paper “Urbanization and Counterurbanization in the United States” mostra come, a partire dagli anni ‘70, la crescita della popolazione nelle maggiori città degli Stati Uniti abbia rallentato notevolmente, e questo cambiamento sia stato accompagnato da un rapido aumento di popolazione nelle aree non-metropolitane.
Il saldo migratorio interno netto tra il 1970 e il 1978 sembrava favorire queste ultime con una quota maggiore di migranti urbani verso zone rurali o non-metropolitane.
Due erano i fattori alla base di questa peculiare migrazione: lo sviluppo di centri più piccoli che si trovano nelle aree limitrofe alle metropoli e la nascita di una migrazione verso zone non-metropolitane del Paese. Il primo, comunemente definito come suburbanizzazione, il secondo, contro-urbanizzazione o “rinascita rurale”.
Già negli anni ‘80 Berry spiegava che il tradizionale schema economico centro urbano – zona rurale fosse stato eliminato da alcuni sviluppi nell’ambito del trasporto, delle comunicazioni e della tecnologia, con stimolanti prospettive future.
Che fare?
La contro-urbanizzazione analizzata da Berry era incoraggiata anche da una crescente attrazione per le amenità naturali delle aree extra-urbane.
Come anticipavamo in un precedente articolo, la concentrazione dei fattori di produzione negli agglomerati metropolitani non è compatibile con le politiche verdi che si vogliono promuovere in Europa. Non è un caso che le regioni italiane con maggiore densità di polveri sospese siano Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, quelle in cui si concentra la produzione manifatturiera.
Crediamo quindi che con la spinta di una crescente sensibilità della popolazione verso la questione climatica, ambiziosi investimenti statali con l’obiettivo di annullare le disparità economiche tra Nord e Sud potrebbero essere accolti positivamente dai giovani.
Definire gli investimenti
Oggi un terzo delle start-up italiane sono concentrate tra Lombardia, Marche ed Emilia-Romagna. Si tratta di imprenditoria giovane che deve trovare spazio anche nel Mezzogiorno.
Seguendo Albouy (2012), un investimento che favorisca la migrazione dai grandi centri a zone rurali o periferiche, ad esempio sviluppare la banda larga o delle ottime infrastrutture, potrebbe avere un impatto positivo sulla produttività delle imprese e permettere a quanti vivono nelle aree urbane di spostarsi in zone più remote continuando a lavorare. Un approccio che come Kritica Economica suggeriamo è lavorare sulla riduzione dei costi che disincentivano le attività imprenditoriali e in generale il trasferimento verso le zone extra-urbane, rurali o svantaggiate: costi di trasporto, connessione internet di scarsa qualità, infrastrutture inadeguate.
Il Sud, ad esempio, è affetto da un gap cronico di investimenti. Basti pensare che (secondo i dati sul settore pubblico allargato) fra 2000 e 2018 il Sud ha sempre ricevuto investimenti pubblici sotto-proporzionati rispetto alla popolazione (ad eccezione di un solo anno, il 2015). Come sottolinea il giornalista del Mattino Marco Esposito nel suo libro “Fake Sud”, è come se lo Stato italiano investisse per allargare il divario fra Nord e Sud, invece di colmarlo. Nel 2018, con una popolazione pari al 34% del totale, il Sud riceveva il 32% degli investimenti. Siamo ben lontani dall’obiettivo del 45% enunciato dall’allora premier Ciampi nel 1994.
Viene spesso citato nel dibattito pubblico il fondo Next Generation EU. Investimenti sulle infrastrutture, banda larga in tutte le zone rurali, fondi per scuola e università: tre proposte per le aree del Paese in cui i saldi migratori della popolazione giovanile sono negativi, in particolare Puglia, Basilicata, Calabria, Molise e Campania.
Fonte: Report Istat sulle iscrizioni e cancellazioni anagrafiche (20 gennaio 2021)
Le divergenze spaziali si manifestano soprattutto nell’istruzione. La quota di laureati al Sud è di nove punti percentuali più bassa rispetto al Nord e secondo l’Istat il divario è in aumento. Se si considera che quasi tutta la quota di laureati si trasferisce al Nord o all’estero, è indispensabile che, assieme ad un focus sulle infrastrutture, ci siano investimenti lungimiranti sulla scuola e l’università affinché una buona quota di neo-laureati resti nel territorio in cui ha completato gli studi. Sarà fondamentale incrementare le collaborazioni internazionali: ad esempio, le città universitarie del Sud dovrebbero giocare un ruolo più importante nell’ambito Erasmus+. Iniziative di questo tipo possono rapidamente stimolare un’economia giovane che non può rivolgersi esclusivamente al turismo.
Istruzione e progetti come l’Erasmus+ sono strettamente legati ai fondi europei. Proprio in questi mesi le regioni si preparano alla programmazione 2021-2017 dei finanziamenti. Una delle convinzioni più radicate sul Sud, come evidenzia sempre Marco Esposito, è che non sia in grado di utilizzare bene questi finanziamenti.
Certo, i fondi europei funzionano peggio al Sud rispetto ad altre regioni svantaggiate dell’Unione europea. Tuttavia, ciò non è dovuto a una presunta incapacità dei meridionali, ma al fatto che i soldi europei al Mezzogiorno hanno sostituito i finanziamenti ordinari mancanti. Non hanno mai davvero svolto la loro funzione di essere un qualcosa di più rispetto alla dotazione normale di fondi.
Urge quindi un confronto intenso nel Mezzogiorno sull’utilizzo di queste risorse. Un confronto che deve partire proprio dai giovani, che sono i primi destinatari di questi finanziamenti. A tal fine bisogna elaborare una strategia di politica industriale ordinata e concertata.
Conclusioni
Investire in opere pubbliche può aiutare le zone attualmente “marginali”, ma l’approccio complessivo deve essere place-based, ossia deve tenere conto delle specificità economiche e sociali del territorio e valutare le ricadute dell’intervento nel contesto. Per questo il nostro contributo vuole presentare un metodo, quello dell’analisi a partire dai dati e dell’approfondimento “sul campo”, affinché le future “politiche spaziali” (come si dice in letteratura) siano uno strumento per la convergenza economica nel rispetto del mosaico sociale, culturale ed economico di tutte le aree del Paese.
Hanno contribuito all’articolo per Kritica Economica: Alessandro Bonetti, Francesco Giuseppe Laureti, Giorgio Michalopoulos e Sara Nocent
Bibliografia
Paul Krugman, Increasing Returns and Economic Geography, Journal of Political Economy, Vol.99, No. 3 (1991), pp. 483-499
Paul Krugman, The Increasing Returns Revolution in Trade and Geography,The American Economic Review, Vol. 99, No. 3 (2009), pp. 561-571
David Albouy, Are Big Cities Bad Places to Live? Estimating Quality of Life across Metropolitan Areas, University of Michigan and NBER, May 29, 2012
Overmann, Gibbons, The future of Rural Policy: Lessons from Spatial Economics, SERC Policy paper, October 2011
Report Istat 2020, Mobilità interna e migrazioni internazionali della popolazione residente
Report Istat 2020, Conti economici territoriali
Dossier Mal’aria 2019, Legambiente
Brian J. L. Berry, Urbanization and Counterurbanization in the United States,Annals of the American Academy of Political and Social Science, Vol. 451, Changing Cities: A Challenge to Planning (1980), pp. 13-20