Pubblichiamo qui un estratto del libro di Giancarlo De Carlo e a cura di Filippo De Pieri, La piramide rovesciata. Architettura oltre il ‘68, Quodlibet 2018. Si ringrazia l’editore e il curatore per la gentile concessione.

 

I Greci non hanno avuto forme di vera e propria organizzazione dell’attività educativa fino al periodo tardo-macedone, i Romani fino al consolidamento dell’impero, il Rinascimento fino alla Riforma e alla Controriforma; e del resto tutti i periodi rivoluzionari della storia umana coincidono con altrettante lunghe pause dell’attività educativa istituzionalizzata: l’educazione si compie dove è più intensa la possibilità di esperienza, cioè nell’esercizio dell’attività rivoluzionaria.

Durante la Rivoluzione francese i veri centri dell’educazione pubblica sono stati i club, le strade, le piazze (e il palco della ghigliottina); durante la Rivoluzione russa: i soviet, le fabbriche, gli atelier (e le corti popo­lari); […]. Ma mentre queste forme di educazione diretta e globale venivano espandendosi, già per interna contraddizione si configuravano le strutture dell’educazione istituzionale, autoritarie e riduttive. In Francia, per esempio, già la Costituente e la Convenzione avevano cominciato a fondare le basi di un sistema educativo funzionale alle ragioni dell’apparato statale, che prima l’impero napoleonico e poi tutti gli Stati moderni avrebbero preso a modello ­– indipendentemente dai loro diversi orientamenti ideologici e politici.

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Oggi però l’espediente che così a lungo ha funzionato in modo quasi perfetto, comincia a mostrare la sua inconsistenza. La rivolta degli studenti, che ormai divampa in tutto il mondo a ogni livello di istruzione e dilaga anche alle professioni e ai mestieri, ha rivelato clamorosamente il rifiuto di quella condizione di esclusione che deriva da una limitazione aprioristica e codificata del campo di azione culturale. […] Con la rivolta dei giovani l’educazione è tornata nella città e nelle strade e così ha trovato un campo di esperienze frequenti e articolate assai più ricche e formative di quello offerto dal vecchio sistema della scuola.

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L’educazione è sempre stata concepita come un’attività segregata. Platone insegnava passeggiando nel parco di Academo e Aristotele nel recinto di Apollo Liceo, ma si trattava, come si è visto, di un’educazione non ancora organizzata. Quando l’educazione ha cominciato a essere un’istituzione, si sono subito costruiti gli edifici destinati a contenerla e allo stesso tempo isolarla dai contatti con l’ambiente esterno. […] La scuola è una struttura fisica destinata esclusivamente all’insegnamento, agli insegnanti e agli studenti come la prigione è una struttura fisica destinata esclusivamente alla detenzione, ai carcerieri e ai carcerati; la sua funzione è di accogliere una attività specifica e anche di isolarla dalle altre attività.

In realtà poco è stato fatto nell’epoca contemporanea per modificare i caratteri – autoritari e monumentali – che gli edifici scolastici hanno sempre avuto. Le scuole nelle città o nel territorio si distinguono subito, a primo colpo d’occhio: sono lì, enfatiche, e isolate, anche quando sono inserite nel più fitto dei tessuti urbani.

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La scuola non deve essere un’isola, ma una parte del contesto fisico e – al limite – il contesto fisico stesso considerato nel suo insieme e concepito, nel suo insieme, in funzione delle esigenze educative; non deve essere un dispositivo concluso, ma una struttura diramata nel tessuto delle attività sociali, capace di articolarsi alle sue continue variazioni; non deve essere un oggetto rappresentato secondo le regole di un codice estetico aprioristico, ma una configurazione instabile continuamente ricreata dalla partecipazione diretta della collettività che la usa, introducendovi il disordine delle sue imprevedibili espressioni.

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Progettare un edificio scolastico significa progettare un pezzo di città, entrare nella città con un intervento che sia omogeneo, cambiare la città per renderla omogenea con l’intervento progettato, intervenire sull’intero campo di forze urbano e metterlo tutto in movimento prevedendo le conseguenze di questo movimento. […] L’architetto – più di ogni altro professionista – progetta eventi conclusi e finiti. Parte da una funzione che gli viene data enucleata dal contesto, predispone una struttura adatta a renderla attuale dentro i limiti astratti della sua enucleazione e configura questa struttura in una forma fisica che la rappresenta e la fa consistere nello spazio fisico. Ma la procedura risente in ogni passaggio dell’astrattezza accettata fin dall’inizio, nel momento in cui l’attività è stata enucleata dal contesto recidendo i suoi legami con la realtà. La decisione autoritaria di partenza riflette la sua carica di autoritarismo sulle fasi successive, che diventano a loro volta autoritarie. Le strutture agiscono infatti come sistemi organizzativi esclusivi e le forme fisiche si configurano come rappresentazioni concluse e inflessibili, presunte tanto più prossime alla perfezione estetica quanto meno la­sciano spazio alle accidentalità dell’uso e del tempo.

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Progettare un edificio scolastico per uno stato di partecipazione collettiva non significa predisporre una concatenazione di spazi collegati da un asse di circolazione e rappresentarla in una configurazione formale stabile, ma significa invece organizzare un luogo di occasioni di esperienza e renderlo attuale nello spazio fisico attraverso un sistema formale già orientato ad accogliere le espressioni molteplici e variabili di chi compie le esperienze.

[…]

La scuola istituzionale fornisce un’educazione limitata perché consente di compiere soltanto le esperienze ammesse dalle istituzioni, mentre esclude quelle che le istituzioni non ammettono. Le esperienze non ammesse sono invece assai spesso le più ricche di insegnamenti, se non altro perché contengono germi di rifiuto che le rendono criticamente più attive.

Che Guevara sosteneva che tutta la società dovrebbe essere un’immensa scuola; e aveva ragione, purché si intenda – come lui intendeva – che la società non deve essere organizzata sulle basi istituzionali esistenti, né su basi diverse che producono però le stesse situazioni autoritarie e discriminanti delle istituzioni esistenti. […] In questa prospettiva si può immaginare la scuola come una doppia rete – distesa sul contesto ambientale – di luoghi in cui si svolgono molteplici attività, compresa l’educazione, e di luoghi in cui si concentrano gli strumenti più specifici dell’attività educativa necessaria al reperimento, l’elaborazione e la trasmissione delle cognizioni.

[…]

La progettazione di scuole – sia che avvenga attraverso l’intera modificazione dell’ambiente fisico per renderlo globalmente educativo, oppure attraverso la definizione di edifici scolastici – deve tener conto di questa prospettiva. Non si tratta più di disegnare recinti sacri, eloquenti all’esterno e rigidi all’interno quanto richiede l’affermazione di dominio di una autorità, inerti e inflessibili quanto richiede l’imposizione di una volontà di ordine. Si tratta invece di innescare un processo generatore di molteplici esperienze attive, e quindi, di intensa educazione.

 

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