Capire la distinzione tra durata della vita (lifespan) e durata della salute (healthspan) è fondamentale per iniziare a porsi una domanda che contiene in sé molte implicazioni: che cosa significa vivere in salute e come si collegano le nuove frontiere della medicina alla fruizione dei loro effetti positivi da parte di tutti?
Il nodo sta nello spostare l’attenzione dall’analisi dei risultati scientifici a quella della loro accessibilità e della loro complementarietà con altri fattori socio-economici in grado di determinarne il godimento da parte, possibilmente, di tutti.
Non si tratta di una frontiera facile da delineare, perché il rischio di cadere nel classico monito “per tutti e meglio” è molto alto. Occorre perciò giustificare anzitutto il perché si voglia affiancare una riflessione di tipo sociale a una considerazione sugli avanzamenti scientifici nella cura della salute (dalla genomica alla medicina di precisione, fino alla vita artificiale, alla clonazione, al transumanesimo).
Secondo studi di ingegneria genetica umana e animale, fattori ambientali e legati allo stile di vita contribuiscono al processo di invecchiamento per circa il 33% della durata complessiva della vita di un organismo, laddove, invece, la genetica da sola giocherebbe un ruolo determinante non superiore al 20%. Ciò, a dimostrazione del fatto che un terzo del tempo di vita risulterebbe maggiormente influenzato da fattori esterni, che da determinanti esclusivamente genetici[1]: cioè dalla epigenetica. Molto conosciuta è, infatti, la correlazione emersa da uno degli studi più rilevanti sul rapporto tra stili di vita e longevità, che ha dimostrato, nei roditori, come la riduzione dell’apporto calorico abbia esteso notevolmente la durata della loro vita. A tale proposito, resta comunque ancora aperto il dibattito sull’estendibilità di tale evidenza anche agli esseri umani[2].
Sembra comunque esistere una relazione importante tra longevità – ossia la durata della vita – e invecchiamento – ossia il processo di danneggiamento progressivo cellulare che conduce alla fine della vita. Nonostante molti scienziati siano convinti che il continuo approfondimento dello studio del genoma umano possa consentire l’identificazione di nuovi fattori sempre più capaci di condizionare la longevità della popolazione, ad oggi le principali ragioni alla base dell’estensione della vita media per gli esseri umani a livello globale sembrano principalmente risiedere nel miglioramento dei comportamenti igienico-sanitari e alimentari, oltre che nell’appropriato uso di antibiotici e vaccini.
Nel tentativo di trovare un equilibrio tra genetica, epigenetica, miglioramenti delle prassi igienico-sanitarie e variazioni degli stili di vita – questi ultimi sì, culturalmente influenzati/influenzabili – Fondazione Feltrinelli intende ragionare e riflettere su ciò che sta accadendo all’interno delle società industrializzate. Gli studi di Wilkinson e Pickett (2018)[3] hanno infatti già posto l’accento sull’“effetto driver” dell’“uguaglianza” all’interno delle comunità per il raggiungimento di una vita non soltanto felice, ma anche più lunga: concetto, questo, pesantemente connotato dal punto di vista culturale. Come dimostrato dal controllo degli effetti psicologici negativi della marginalizzazione sociale (ereditabili ed estremizzati laddove intercettati dalla violenza sociale da un lato e dalla sociofobia dall’altro), tutto ciò risulta a supporto del crescente ruolo dell’epigenetica nel collegare le scienze mediche a quelle sociali.
Alla luce dell’esistenza della correlazione fra durata e qualità della vita e sistemi socio-economici in cui interagiamo, è quindi cruciale interrogarsi sul ruolo chiave giocato dalle policy, intese come meccanismi di gestione delle risorse necessarie per l’erogazione di servizi socio-sanitari efficaci e accessibili, ossia alla portata di tutti e soprattutto dei più bisognosi. Dal punto di vista gestionale, l’intrecciarsi delle arene d’impatto in cui il tema della salute proietta i propri effetti (eguaglianza di genere, modelli finanziario-assicurativi, godimento dei diritti civili di partecipazione alla vita pubblica e determinazione del proprio fine-vita, per citarne alcuni) produce un complicato scenario di interdipendenze cui i sistemi pubblici, in cronica carenza di fondi e di leadership gestionale, non sono al momento in grado di rispondere efficacemente. Occorre dunque un processo di disarticolazione degli organigrammi erogativi– classicamente pubblici, top-down, settoriali – per avvicinarsi a modelli di policy socio-sanitarie che ottimizzino le risorse e i risultati. Occorre, in altre parole, un gioco di squadra più ampio fondato su un modello sistemico di progettazione delle policy, capace di razionalizzare le “poche risorse”, a favore dei “molti bisognosi”. È proprio questa la sfida cui sono chiamate a rispondere le Scienze Sociali, creando le condizioni politiche per un contesto di fruibilità più equo, non soltanto perché più giusto, ma anche perché correlato a un miglioramento effettivo della salute della popolazione.
Processi di co-creazione e integrazione delle risorse (non solo dei budget) e delle policy socio-sanitarie condivise tra diversi enti pubblici d’erogazione, tra quest’ultimi e gli attori socio-sanitari privati e, infine, tra pubblico, privato e comunità locali sono i tre scenari in discussione. Lo sforzo più complesso non sembra essere la cooperazione tra organizzazioni con nature diverse, quanto il loro coordinamento. Se davvero si vuole cambiare il modello operativo delle policy socio-sanitarie, si impongono allora profondi meccanismi di revisione delle rispettive accountability, garantendo così a tutti accessibilità e qualità dei servizi: ancor di più se ciò è direttamente correlato all’obiettivo di aggiungere vita agli anni, e non solo anni alla vita.
[1] A.Gore (2013), The Future: six drivers of global change, Random House New York, 254-255.
[2] Ibid.
[3] R.Wilkinson e K.Pickett (2018), L’equilibrio dell’anima, Feltrinelli.