Di seguito pubblichiamo un estratto del saggio di Marino Regini “I limiti delle nuove analisi sul destino del capitalismo”, tratto dal volume Max Weber oggi. Ripensando politica e capitalismo, a cura di Dimitri D’Andrea e Carlo Trigilia (il Mulino, 2018). Si ringraziano l’autore e l’editore per la gentile concessione.
Alcune recenti interpretazioni dello sviluppo capitalistico e della sua crisi, quali quelle di Streeck (2013) e di Crouch (2014), trascurano e sottovalutano, a mio parere, tre elementi dell’attuale crisi del capitalismo europeo che non dipendono dalla sua dinamica anarchica e dalle sue contraddizioni interne, ma dal ruolo rispettivamente delle istituzioni, delle idee e dei rapporti di potere.
a) Per ciò che riguarda le istituzioni, si trascurano gli effetti perversi delle istituzioni regolative, e in particolare quei «fallimenti dello Stato» che si possono contrapporre ai fallimenti del mercato. È il welfare State keynesiano il principale indiziato della stagflazione degli anni Settanta, così come la recessione dei primi anni Novanta va ricondotta in primo luogo alla stretta creditizia della Bundesbank, e come sono state le politiche di austerità volute da alcuni governi e adottate dalla Commissione Europea a rendere particolarmente lunga la recessione dell’Eurozona seguita alla crisi del 2008.
b) Per ciò che riguarda le idee, non si può trascurare l’egemonia ideologica del neoliberismo (Schmidt e Thatcher 2013), che da un lato premia l’efficienza rispetto all’equità e dall’altro non consente di agire sulla domanda per il tabù del pareggio di bilancio. Ed è quindi responsabile della lenta ma costante erosione del modello sociale europeo, che aveva realizzato un «compromesso storico» fra Stato e mercato e fra capitalismo e democrazia.
c) Infine, per ciò che riguarda i rapporti di potere e i conflitti interni al capitalismo, Baccaro e Pontusson (2014) mostrano come la gestione della crisi economica dopo il 2008 abbia favorito il capitalismo tedesco a spese degli altri paesi europei, con una gigantesca redistribuzione delle fette di mercato e di controllo economico. In termini differenti, anche una recente analisi di Streeck (2015) dimostra lucidamente gli effetti dell’egemonia del capitalismo tedesco sull’andamento del capitalismo europeo.
In particolare, il punto a) merita di essere elaborato più per esteso. La profondità e la persistenza della crisi recente, l’apparente mancanza di alternative alle strategie fallimentari basate su dosi sempre maggiori di «austerità», non possono infatti essere spiegate solo con il predominio incontrastato di una logica di mercato. Oltre che dei fallimenti del mercato, questa crisi è conseguenza e al tempo stesso sintomo anche dei ripetuti fallimenti dello Stato. Lungi dall’essere elementi di una lucida strategia complessiva, l’esplosione dell’inflazione negli anni Settanta e poi del debito pubblico negli anni Ottanta è stata una conseguenza non intenzionale di politiche statali spesso osteggiate dai rappresentanti del capitale, e volte comunque a compensare gli effetti allocativi del mercato (Regini 2014).
Proprio perché questa esplosione ha costituito un evidente «fallimento dello Stato», a partire dagli anni Ottanta ha potuto gradualmente imporsi un’ideologia neoliberista che predicava la deregolazione dei mercati. Non si spiegherebbe la tenace persistenza di questa ideologia persino di fronte alla crisi finanziaria del 2008 e ai danni provocati dalle ricette di austerità per affrontare la recessione, se a monte non vi fosse il fallimento del modello alternativo per contrapporsi al quale è nata, cioè quel «modello sociale europeo» di regolazione statale e associativa dell’economia che per trent’anni si è concretizzato nel welfare State keynesiano e tendenzialmente concertativo dominante in Europa.
La Grande Depressione degli anni Trenta vene largamente letta come conseguenza di un «fallimento del mercato», e fu in quel contesto che le teorie keynesiane di deficit spending da parte di governi votati all’obiettivo della piena occupazione mediante l’adozione di misure anti-cicliche divenne egemone, rendendo possibile il «compromesso storico» fra Stato e mercato, che ha caratterizzato il dopoguerra.
Come è noto, questo compromesso storico fu però messo brutalmente in discussione dalla stagflazione dei tardi anni Settanta. Ma questa volta la crisi non poteva essere letta come «fallimento del mercato», bensì come effetto non previsto delle politiche keynesiane adottate dai governi europei, quindi come «fallimento dello Stato». Infatti, apparve chiaro che la stagflazione era prodotta non solo da fattori esogeni quali le crisi petrolifere, ma anche e soprattutto da fattori endogeni, connessi cioè agli obiettivi perseguiti dallo stato sociale keynesiano – piena occupazione e riduzione dell’insicurezza sociale – e agli strumenti utilizzati.
Su questa diagnosi che metteva in luce un «fallimento dello Stato» si creò nel tempo ampio consenso. Se nei primi anni Ottanta un autorevole scienziato sociale come Goldthorpe (1983) poteva ancora intravvedere due possibili risposte alternative alla crisi del welfare State keynesiano – quella neoliberista basata sul ritorno al libero mercato e quella che definiva «neo-interventista» basata su politica dei redditi e concertazione – pochi anni dopo apparve chiaro che la prima era diventata dominante, proprio in quanto la ricetta di ritorno a un mercato autoregolato traeva la sua legittimazione da quel «fallimento dello Stato» manifestatosi negli anni Settanta.