Direttore della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.”

È il testo dell’art. 2 della Costituzione della Repubblica italiana. Nel testo di quell’articolo si trova una delle due grandi opzioni che stanno nel laboratorio della Costituente: il tema dell’inviolabilità dei diritti. È uno dei temi che riguardano profondamente il nostro tempo, in cui molto spesso il problema non è quello di “conquistare diritti di cui non si gode” (che è stato la spina dorsale del ‘900) ma bloccare la violazione di diritti di cui si dovrebbe godere e dunque caricare di nuovi significati l’esercizio dei diritti, individuali, di gruppo, collettivi.

Il 70 anniversario dell’entrata in vigore del testo fondamentale della Repubblica italiana ha richiamato l’attenzione in queste settimane sui problemi forse più urgenti del nostro Paese. Il tema del lavoro, (il riferimento è all’articolo 1); la pari dignità e l’uguaglianza di fronte alla legge (articolo 3); la tutela delle minoranze linguistiche (articolo 6); il riconoscimento delle autonomie locali (articolo 5).

La Costituzione, è stato detto molte volte, è un testo che contemporaneamente si presenta come compiuto, ma anche propone di essere progressivamente completato, vissuto dalla storia dei cittadini che il testo stesso accompagna come ossatura del sistema delle leggi.


Il presidente Enrico De Nicola firma la costituzione italiana, il 22 dicembre 1947

Il tema in questo caso non è la sua indeterminatezza, o la sua approssimazione, ma la possibilità di porre dei principi cui poi la vita reale, o le sfide che la politica si trova ad affrontare e a risolvere costituiscono dei percorsi di riflessione che obbligano a pensare alla coerenza e alla esaustività del dettato costituzionale.

In un intervento che Piero Calamandrei tiene all’Assemblea Costituente il 4 marzo 1947 egli dice come “agli articoli di questa Costituzione sia accaduto quello che si dice avvenisse a quel libertino di mezza età, che aveva i capelli grigi ed aveva due amanti, una giovane e una vecchia: la giovane gli strappava i capelli bianchi e la vecchia gli strappava i capelli neri; e lui rimase calvo. Nella Costituzione ci sono purtroppo alcuni articoli che sono rimasti calvi”.

Dunque si tratta ogni volta di misurarli con le sfide che il presente propone. Non perché siano incerti, ma perché ogni volta si tratta di ritrovare un profilo su cui misurare la loro coerenza.

A noi è sembrato che un percorso di questo tipo potesse essere rappresentato dalle sfide proposte nell’articolo 2 della Costituzione laddove il problema dei diritti inviolabili non sta nell’arrogarsi da parte del potere pubblico il diritto di attribuirli, ma appunto di riconoscerli. Ovvero il fatto che quei diritti esistono indipendentemente da ogni attribuzione istituzionale. Diritti che non si fermano a quelli riconosciuti come diritti naturali, spettati all’individuo in quanto tale, ma si riconoscono nelle libertà civili che a partire dal Settecento si sono storicamente affermate come essenziali al fine di dar luogo a un ordinamento ispirato ai principi liberali (laddove in questo riconoscimento sta, tra gli altri, la libertà di manifestazione di pensiero).

Ci è sembrato che uno dei momenti più problematici nella storia dell’Italia contemporanea, fosse rappresentato dagli accadimenti di Genova 2001: la possibilità della parola di generazioni, ma anche di attori che con drammaticità provarono a dire la loro, a chiedere spazio di cittadinanza.

Noi a quelle voci volevamo dare un’opportunità di tornare ad essere parte della discussione pubblica uscendo da una condizione in cui, significativamente, si decretò il silenzio di una generazione. 

Il tema era il diritto di parola, ma anche il diritto a riprendersi uno spazio pubblico, rispetto al quale non sentirsi né esclusi, né orfani.

G8 GE 2001. La generazione che perse la voce, è un percorso di riflessione pubblica, in cui il tema non è quello che è accaduto a Genova, nel luglio di tanti anni fa, ma è una procedura per fare in modo che quelle voci escano da Piazza Alimonda e riprendano a parlare, abbandonando la dimensione del “lutto”.

Il tema dunque è quello che è accaduto dopo, nelle pieghe di una generazione che ha impiegato tempo per iniziare a ritrovarsi, poi a ricucire le maglie e a sentire l’urgenza di dare voce al proprio smarrimento. Un modo per fare di una data, non un luogo di memoria, ma un’opportunità per dare volto a un possibile calendario civile dove mettere al centro non la violenza, ma i percorsi riflessivi per dare forma e volto a una nuova esperienza di presenza pubblica.

 

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